La mia anima perversa - sempre convinta che il viaggio sia un ritorno più che una scoperta - per la contentezza di aver ragione ha fatto le capriole anche a Recanati, dopo che senza ritegno s'era esibita in piazze e spianate di castelli insistite. Insistite, dico, dalla cerca che faccio dei posti già battuti in epoche altre; quanto alle capriole, non le vedete ma vi garantisco che mi dà filo da torcere, quella malnata, quando salta come un canguro e euforica squilla addosso al cuore tipo la pallina del flipper sui campanelli, e lo manda in extrasistole. Siccome ce lo so che fa così quando è mestamente felice, la lascio scapricciare, rallento il passo e respiro tutta l'aria che trovo, che del resto dalla gelateria ai margini delle mura - dove c'hanno un cioccolato Cuzco che ripartirei da Narni adesso - fino a Casa Leopardi mi sembra più pulita che altrove. Sono entrato a casa di Giacomo tre volte, negli anni, ed è l'unico palazzo dove si paga in cui ho messo piede così tanto. Se fossi un altro tipo di uomo e se esistessero ancora, solo i bordelli potrebbero tentarmi di più. Mi hanno raccontato, un paio di guide sveglie e saccenti, che il poeta aveva il morbo di Pott - cosa che già sapevo - e che non era l'astuccio delle ali, quella gibbosità sulla schiena, né l'assecondare piegato in due troppi libri e troppi malvizi. Aveva un tavolino, il miope Giacomo, che spostava sotto le finestre a seconda di dove cadeva il sole: lesse così una media di otto libri al giorno, e tutto quello che leggeva, ricordava. Qui si manifesta il genio, più che nella pur finissima arte, tanto meglio a me, che (per citare Brignano) non mi ricordo manco come mi chiamo, certe volte, e per studiare ho sempre fatto una fatica dell'anima (rieccola!) Siccome poi ogni mio ritorno in posti beati è anche un divagare emotivo, ho allungato fino a Corinaldo, passando però per Ancona, davanti all'ospedale dove Pietro, un mesetto fa, pensò bene di farci prendere lo spavento più grande. Che ve lo dico a fare: commozione minuta a ogni chilometro, intima e tenace. La commozione di chi torna appena dopo che c'è stato con altri e stavolta da solo, a vedere se le braci di tutta quella avventura si sono spente del tutto. Se cova ancora qualcosa, ne scrive, come anche ne Il gioco dell'allegria è capitato. E poi se ne torna a casa tutto soddisfatto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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