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L'antidoto

C'è stato un tempo - io ero già vivo - in cui le parole uscivano disarmate dai ragionamenti, e si fermavano ben prima di azzuffarsi con altre, in un campo magari - se s'era deciso di arrivare fino alla fontana di Santa Rosa a digerire un pranzo sfacciato -  e volavano intorno come farfalle, e si sedevano in cerchio come le fate, e insomma poi ognuno si riprendeva le proprie senza che sanguinassero, e si tornava a casa leggeri. O attorno ai tavoli dell'infanzia - sempre quelli in appena tre o quattro case differenti - mentre si sgranavano legumi si usavano per raccontare. E ricordare,  per intenerire, perfino, e proteggere. Poi dev'essere caduto un meteorite, o il pezzo di un dio perverso sopra la terra - un femore, le tonsille - e siamo mutati. Forse lentamente, che è il fatto per il quale non ce ne siamo accorti, mentre accadeva; oppure sì, ce ne siamo accorti, ma non ce n'è importato, che succedesse pure. Ora siamo ostili, viviamo tutto il tempo in trincee opposte, e non abbiamo nemmeno l'estro di Ungaretti per farne sentimento, della guerra. Se gli dai retta, a quelli che hanno una spiegazione per tutto più acuta degli altri, ti rivelano che la colpa è della tecnologia, dei diari dentro agli schermi, dei numeri che i venditori di soldi ci dicono più importanti di qualunque imprevisto che allegra. Non siamo ancora così evoluti da riconoscerci responsabili per quel che commettiamo; incolpiamo gli strumenti, che non hanno anima e quindi né etica né volontà. Io credo che se ammettessimo che siamo dei vermi - talora almeno - potremmo provare a riscattarci: il primo passo per ritornare esseri umani è l'autocritica, ho il sospetto. C'è un film magnifico, che abbiamo visto in dodici, che racconta - con la scusa nobile dell'epica del west - proprio questo disamore. Hostiles, si chiama. Ci stanno i soldati blu e gli indiani. All'inizio del film si detestano, si sono massacrati fino a un minuto prima. È il crepuscolo della frontiera, i pellerossa sono vinti, sterminati. Due che sono stati nemici per tutta la vita - un capitano dell'esercito e un capo Cheyenne - si mettono in viaggio loro malgrado: l'indiano ha il cancro e vuole morire nella terra dove è nato. Al soldato tocca scortarlo, o gli toglieranno la pensione. Insomma sono tutti e due fregati. Eppure. Eppure a un certo punto si accorgono che hanno qualcosa che appartiene a entrambi. Non vorrei dire umanità per non suonare retorico ma sì, è quello: umanità. Così cominciano a parlare, prima insultandosi, poi un po' meno. Disarmano le parole. Finisce in un modo che non vi dico, perché vorrei che lo vedeste. Finisco anch'io giurando che è uno dei pochi film, tra quelli recenti, che racconta la modernità dell'odio con stupefacente precisione. E perfino l'antidoto per neutralizzarlo.

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