Il gas nelle bottiglie di plastica pensa bene di scoppiare sempre tra le due e le tre del mattino, appena mi addormento - finalmente - come mi avessero piantato un chiodo in testa. Fino a quel momento scendo a patti con un'insonnia in battere e levare, che quando colpisce mi sfianca e quando solleva mi adagia in un torpore di acqua bassa, melmosa. Il tlac dell'effervescente naturale è secco, uno sparo, rimbomba nelle stanze spente, il buio lo rintocca da una stanza all'altra: Cos'era? Da dove è venuto? Da fuori? Non può essere, la finestra è chiusa. Mi rimetto giù ma l'incantesimo del sonno è finito, e a quel punto, alla spicciolata, arrivano tre o quattro ricordi perenni - come le nevi dell'Himalaya - che sgomitano per comandare. Talora sono giorni di leggerezza e dramma sfiorato, di sollievo perché scampammo un pericolo - io, Pietro, Rita, Clara e Gastone - quelli che camminano sulle pareti; altre volte coincidenze cui non ho mai saputo dare una spiegazione - come il pomeriggio che Pietro si alzò dal divano prima dell'Avvelenata di Guccini - le radio all'epoca erano audaci - e mi salvò dall'imbarazzo di ascoltarla con lui. Ma dicevo dei pericoli scampati. Una sera d'estate della fine dei Settanta Narni tremò tutta per il terremoto. Prima di cena casa prese a sgranchirsi come si fosse stancata di star lì piantata, davanti all'Albergo Bellavista, da chissà che tempo e volesse andarsene per i fatti suoi. Rita che mi chiama - stavo nella camera di passaggio a leggere Zagor - e corre col bicchier d'acqua, che agli anni della mia fanciullezza curava qualunque spavento. Gastone che accorre dalla stanza della musica, lo spartito in mano, quasi contento. Pietro che risale di slancio la strada ancora piena di luce dalla tabaccheria, mentre ovunque - nelle facce della gente, sulle terrazze - si accendeva l'ansia. Venne sera e poi il buio. Ci guardammo in faccia, E allora buonanotte, disse Pietro, ma tentennavamo, tutti. Gastone sparì nelle sue stanze e in capo a cinque minuti tornò con una sacca da viaggio. Dormiamo fuori, disse. In albergo? - domandai io. Ma no, in albergo è come a casa. Per strada, in un campo, vediamo. C'è un posto sopra Narni, tra la Rocca e la campagna che la cinge che si chiama Caprile. Ci stavano delle pozzanghere che chiamavamo laghetti, per via di quella vanità che ti fa ingigantire le cose del posto in cui sei nato. Ci andammo, tutti e cinque. Io dormii nel sedile posteriore della 500 Hippie, grato per l'avventura inattesa. Gli altri per terra, ch'io mi ricordi. No: Clara no. Su una sdraio. E la mattina erano incriccati e insonni, come me oggi. Quando qualche anno dopo la città fece il richiamo - come un vaccino - e riprese a ballare non proprio impercettibilmente, Gastone tirò fuori di nuovo l'idea di Caprile, perché lui era un cowboy e gli piaceva dormire sotto le stelle. Ma quella volta Pietro si oppose: Guarda - confessò - preferisco che mi cada in testa la signora Diofebi, che stava in effetti al piano di sopra. E così non se ne fece più nulla.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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