A Senigallia c'è un negozio di dolciumi che da ragazzino mi avrebbe reso felice, e che oggi mi rende felice e per giunta mi dà di che scrivere, perché da ragazzino non avevo contezza del passato, e di quanto mi sarebbe piaciuto raccontarlo. So che detti così suonano arzigogolato il ragionamento e torbida la frase, ma torbida e arzigogolata è la memoria, che dio la benedica, e io a semplificarla farei un torto. A chi mi legge e a me stesso. Per cui. Per cui arriva, quella bottega, a una svolta della via maestra - così la scrivo: perché non ne ricordo il nome, che pure avrà - tra uno slargo dove la sera fanno musica nobile e il chiosco stretto di un giornalaio assediato dalle sue stesse riviste, che ogni volta si fanno più da presso, e pare vogliano spodestarlo e conficcarci al suo posto una bandiera, come in quella foto grandiosa di Iwo Jima. Susi ha ricordato che là davanti, nove anni fa, c'era un clown che gonfiava palloncini in forma di bruco, di muso di gatto, di tromba, e che gli scattammo una foto, col suo permesso. La perversione mia a paragonare l'allora e l'ora e a calcolare la sofferta vita in mezzo che peso ha avuto e quali meraviglie mi ha pur riservato, è arrivata puntuale, e desiderata. Non scanso più le malinconie, le corteggio, addolcisco, come si fa con un orzo amarognolo, e così mi ci sono ambientato. E lo stesso in questa città che conserva l'eco attutita di un dolore che sarebbe arrivato - e che già all'epoca era intuibile - e che è una specie di casella numero uno del mio furibondo gioco dell'oca. Tutto, qui - gli angoli, i suonatori Jones sui gradini delle passamanerie, il mare annusato, la movida provinciale, l'estro che mi piglia di riandare sui camminamenti del tempo - ha il colore stinto della tristezza, denudata però della disperazione, e non è poco, non è un regalo immeritato e non era scontato, che così si sarebbe trasformato. Ho poi scoperto che fanno un gelato biologico acquoso epperciò leggero, ancora poco più in là, prima del ponte: una dolcezza a pochi metri dall'altra - e che la sera qui scende tiepida, e adatta a rinnamorarsi di chi ami già, e per un tratto credevi smarrito. Qui molto si ricompone, e mi placo, e a un certo punto la furibonda smania di raccontare, la paura di non farlo abbastanza bene, la necessità di conferme lusinghiere si addormenta. E io anziché scriverne di continuo posso riprendere per un tratto a vivere una vita accettabilmente normale.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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