Viaggiare a 140 e poi fermarsi a mangiare significa fermarsi a mangiare in un non luogo, un posto che non ha bandiera, un porto franco. Parlo degli autogrill, che Francesco Guccini raccontò una volta per tutte - talmente bene lo fece - e che io mai frequento da solo, per via che mi scaraventano addosso una malinconia di distacco che in solitudine annienta. Oggi mi ci sono combinato, invece, a sostarci per conto mio, di ritorno da Ancona e più su, da Corinaldo, dove tutto è un castello, perfino gli alberghi. Non ho avuto modo di godermela, la sgambata, perché l'ansia l'ha fatta da padrona, ed è stato alla fine un caotico andirivieni di bancomat, trolley, prenotazioni, sprenotazioni, reparti di cardiologia, insonnia, fame nervosa, rotonde che han mandato ai matti il Gps e mare visto solo da lontano. Fare il viaggio di andata in due e di ritorno con l'unica compagnia dei camion a dare l'andatura è appunto un'esperienza di distacco che mi taglia a metà. Per questo a un certo punto ho deciso di farmi seriamente del male, fermandomi nello stesso posto del giorno prima, solo dalla parte opposta. Ho fatto razzia di liquerizie Haribo, e preso metà caffè macchiato - se la barista per caso mi legge non pensi che non mi piacesse: metà tazzina è la quantità giusta per non farmi addormentare alla guida e non togliermi sonno la notte. Ho rispettato poi il sacro motivo per cui gli autogrill sono stati inventati - farci una trattenutissima pipì: tutto il resto è una sovrastruttura capitalista che induce a svenarsi per non far la figura di chi orina gratis - e a quel punto mi è preso lo struggimento. Tu non c'eri e non c'era più neanche Sara, e così stavo tra due fuochi ma lontani, proprio nel mezzo, stiepidito, instupidito da duecento gallerie, strappato per qualche ora dalla vita di chiunque, come Oliver Twist. Solo che l'orfanotrofio era quel perverso transatlantico con la scritta Pavesi, che di notte sembra una montagna russa orizzontale, dove dentro ci trovi le salamelle a peso d'oro, i dischi degli Abba e i Mikado appiccicati alle confezioni. Danno da pensare, esperienze così. Uno potrebbe anche progettare di andarci a vivere per sempre, in uno di quei palazzi carponi sopra l'autostrada, capovolgendone il senso: da luogo in cui si sosta per un niente a casa in cui si abita per sempre. Ma se così fosse, non potrei scriverne, la malinconia del distacco non farebbe letteratura, e io finirei per credere che si può vivere senza patirne. Della vita stessa, dico. Bah, che scemo che sono. La buona notizia comunque è che ho ucciso la tentazione di restare lì, e farmi assumere come friggitore di cotolette. Devi portare a casa il risultato, ragazzo, si leggeva nella nuvoletta arrotondata sopra la mia testa. Il che vuol dire restare sano di mente e indispensabile per qualcuno. Così son risalito in macchina e non mi sono più fermato fino alla porta di casa. Dove ho per altro scoperto che la mia vescica ha ancora una buona elasticità.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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