Io quando viaggio viaggio per sentimento, e più spesso che andare torno, anche nei posti dove è la prima volta che metto piede. Per via che se scelgo una meta la scelgo per debolezza: ovunque c'è una storia che aspetta d'essere cantata io corro, tipo l'ultima volta - un paese che è tutto un teatro all'aperto, scosceso, aggrumato su un colle, e una trattoria alla sommità di un cammino per gente dai garretti saldi, e una sera che cade al rallentatore, per farti intenerire a puntino. Parlo di Castro dei Volsci, Ciociaria, gran belle pietre, gran bella gente. Arrampicandomi - a onor del fiato che ancora mi reggeva - ho trovato via Porta di Ferro, che è dove è nato Nino Manfredi. Che è - a sua volta - il motivo per cui mi sono messo in cammino. Trovo che andare in cerca delle origini degli artisti che mi hanno fulminato il cuore sia soave e leggermente fuori tempo: quelli che ho amato sono quasi tutti morti, il che mi impedisce di farmi foto con loro o estorcergli autografi. Ma tant'è. Giro l'Italia per respirare la loro stessa aria, mettere le scarpe sui loro stessi gradini, prendere il caffè negli stessi bar, affacciarmi dalle loro stesse terrazze. Pare che Manfredi abbia fatto in tempo a starci poco, qui, ma è tornato assai volte - io credo anche in incognito, più di qualcheduna; poi un giorno rimpatriò che era già famoso, e la gente in piazza lo acclamava, riconoscendo in lui il vanto di un popolo. Le foto pubbliche e private, in mostra dentro una stanza che è come il caveau di una banca di nostalgie, dicono la sua devozione alle origini, che è la stessa mia, umilmente parlando, e quella di tutti coloro che stando in posti dove non sono nati se ne incolpano, perché da quella stonatura discende un poco di infelicità. Castro dei Volsci come Narni, quindi, ma ne riparleremo, se sarà il caso. Volevo invece dire che qui mi sono emozionato. Il vento tra i vicoli, che smorzava un giorno torrido, portava - mi è parso - anche la sua voce. Ce l'ho nelle orecchie da quando ero bambino e Nino parlava con un pezzo di legno. Poi lo ritrovai a vendere abusivamente caffè su un treno, portantino in ospedale, emigrante in Svizzera, carbonaro a Roma. Ho spacciato per mie le sue parole, i gesti, e la rielaborazione della sua ironia talora mi ha salvato la pelle. Perché uno come Nino non è soltanto un attore: è una filosofia, un algoritmo di vita, un sistema per gabbare la morte. Una sfida al destino, con quello sgranare d'occhi davanti alle enormità, alle follie umane. Con le domande retoriche a cojonella: Ma come? I francesi me pjano a cannonate e io non me 'mpiccio? E da quanno in qua l'amor de patria è diventato un delitto? Da qualche tempo, Nino, da qualche tempo. Ma questo è un altro discorso e allora la chiudo qui.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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