L'estate cominciava con un lampione, un terrazzo e una sedia a sdraio. O c'erano, e c'era l'estate, o non c'erano, e allora ai miei occhi bambini l'estate tardava. Il lampione è rotto un'altra volta - diceva talora Pietro, e se lo diceva a maggio ce l'avevo la speranza che per luglio gli elettricisti del Comune cambiassero la lampadina. Quando era nuovamente acceso farfalle di ogni famiglia frullavano là attorno per berne la luce, fatue che non erano altro. Gastone, incurante di quegli svolazzi tra i capelli, dello sbattitìo molesto degli insetti sul vetro, traslocava la sdraio di cui sopra sul terrazzo di cui sopra, e cominciava la festa. Era in effetti una festa, questo avvento della stagione bella, una palingenesi che si ripeteva con discreta puntualità per il mio sbalordimento. Cinque anni avevo la prima volta che me la ricordo, e un ragazzino di cinque anni si compiace spesso di come il mondo sembri venuto bene - beata innocenza - e di come tutte le attese siano destinate a buon fine. Pensa con quante bugie ci cresce il tempo. E comunque Gastone abitò quel terrazzo - che ancora esiste, ha solo la ringhiera cambiata, e affaccia sulla stessa strada che ad aver pazienza uno strappo fino a Roma te lo dà - con la placidezza dei messicani in siesta, e si godette l'avventura del Tex alle prese coi desperados che gli avevano gonfiato come un fiasco il pard indiano. Leggeva fumetti come mangiava il gelato: avidamente, e finiva la storia troppo presto per andare a dormire; così la ricominciava ma rallentando, recitando per il mio sollazzo le onomatopee e gli insulti - bang, slam, peste!, figlio di una puzzola, satanasso - e girava l'albo per guardare meglio certe inquadrature. Quando divenni più grande facevamo una voce per uno, e così a scuola quando davo a qualcuno del tizzone d'inferno pensavano tutti che fossi bevuto. Quel settembre dopo, quando ormai il ranger s'era vendicato dei pestatori ma aveva un'altra grossa gatta da pelare, capitai appunto in prima elementare e la suora ci ordinò cigliosa di disegnare una cornice sulla prima pagina del quaderno. La presi alla lettera e architettai un quadro, con la prateria dentro e un omino a cavallo che somigliava a un cowboy. Lei s'inalberò e rimediai la prima lavata di capo della mia carriera di scolaro. Disse stizzita che era il foglio che doveva essere messo in cornice, con tutte le virgoline e le mele e le arance disegnate lungo i bordi, che non avevo capito niente e che ero certamente un bambino poco sveglio. Io le risposi Va bene così, compañera, a mio zio piacerebbe: vaya con Dios, e lei - che io sia dannato se non è puro vangelo - mi trascinò a urlacci fin dalla direttrice.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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