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Francesco al giro d'Italia


Non tenere le mani in tasca, che se inciampi caschi e ti sgrugni; e poi non mettere le punte in dentro, che ti crescono i piedi storti. Sèntici. E io ci sentivo, mica ero sordo, ma poi facevo come mi pareva: tenevo le mani in tasca e stortavo i piedi; per disattenzione, più che per anarchia. La ripeteva Gino, questa formula di educazione burbera, e la rammentai la prima volta che uscii alla piazzetta dalla porta sul retro: abitandola - giacché in ogni posto in cui nasci c'è una via Paal -  capii che ci potevo lavorare, a giocarci avventure che sarebbero diventate ricordi - come piantare un niente e aspettare tulipani. Oggi ho la fortuna di potermici riaffacciare ancora e nulla a parte me è cambiato: né la porta di casa, né l'asfalto granuloso, in discesa; la serranda del garage che pigliavamo a pallonate, o la finestra di Catenaccio, da cui il padre precipitava madonne peccaminose e mastelli d'acqua zozza sulle nostre imprese. Però la lussuria non era quella - quella era strafottenza. L'oscenità era le birre vuote che rubavamo dalle casse di Gualtiero -  l'osteria in coda alla strada - e che sgocciolavamo in un bicchiere, a sommare le scolature e a berle di nascosto. Prima i più grandi, i dodicenni, e poi a scalare noi soldati semplici. E tenevamo in tasca, e nelle mutande, i tappi - della Peroni, della Wührer - che erano le nostre biciclette. C'erano Battaglin, là fuori - sui tornanti di qualche Appennino - e Baronchelli, e Gimondi, e Eddy Merckx, il cannibale, e De Vlaeminck, il gitano. Nomi epici, come Ettore e Achille, Ulisse e Polifemo. Li scrivevamo sulla gomma di quei tappi, allora, e incidevamo i nostri poemi schiccherandoli con la punta delle dita per terra, sopra le piste di gesso tracciate spesse, perché si vedessero bene e nessuno dicesse Stai a fa' il furbo, non tagliare!, per la prova a cronometro - contavamo con le dita - e la volata a squarciagola di chi rifaceva pari pari Adriano De Zan. Era un tempo di sfida, rispetto a quel poi che avrebbe consegnato un po' a tutti morigeratezza e noia. Era un tempo di grandi imprese e innocentità. Sarà per quello che dopo la bicicletta io non l'ho mai amata. Perché nessuna assomigliava al tappo della Moretti - ci scrissi piccolo piccolo José Manuel Fuente - con cui una volta, nel maggio del 72, vinsi a mani basse il giro d'Italia.

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