Ecco che torna, ragazza senza nome, donna di malaffare, giovenca. Eccola, colle sue ossa sottili, il trucco che sbrodola, la fica in mostra. Non la vedo e c'è, eppure, come qualunque passante, l'edicolante che mi impresta i giornali, l'avvocato in bicicletta. Nasce ogni volta nello stomaco, sale al petto, dimora in gola. E spadroneggia. Eppoi non fa avvisi, non rulla tamburi: quando si presenta si presenta e basta, come un malfattore. Viene e ruba l'allegria, sua sorella fatua; viene e leva la polvere d'oro dai cuscini, e la mattina è pena, cordoglio. Arriva coi sogni: stanotte ho sognato Roberta con una camicia leggera, al centro della solita città trasfigurata a cui il sogno sposta le fontane in un altro quartiere, le case rotte le tinteggia di blu, bagna le quinte come dentro a un acquario, e tutto e liquido, tutto tremula. Al risveglio è uscita dal delirio e sta seduta in pizzo al letto, mi guarda, sorride, ha preso le mie labbra di ieri che sorridevano, a me ha appiccicato le sue, meste. Oppure s'insinua tra una canzone e un orsetto che spara alle bolle di schiuma, sale al piano della radio assieme a un ospite, e quando chiudo la porta mette un piede in mezzo. Persevera, maligna. Certe sere vola con gli uccelli rapaci sopra i rami del terrazzo, scherza con le formiche della balaustra, trova uno spiraglio - un andito, o abita un bugigattolo - e se io ci passo vicino mi s'appicca al collo, mi strangola. Mi ama - dice, - mi ama e non mi lascerà mai. Oh sì, la ripudio, io, combatto l'ostinazione che mostra, scanso i denti feroci. Se non la smetti ti racconto - le dico, e lei fa peggio: smania per essere diva, si atteggia con un cappello a Lauren Bacall. Non c'è verso di farle la pelle, è immortale, padrona di casa, padrona di vita, infingarda. Solo talora dorme, crede di aver vinto e si placa. E scappo in sella a un motorino azzurro in cima a una città arroccata. E lassù mi nascondo, cambio nome, connotati, finché senza nessuno sforzo mi scova, e la perversione ricomincia.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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