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Che cos'è

Ecco che torna, ragazza senza nome, donna di malaffare, giovenca. Eccola, colle sue ossa sottili, il trucco che sbrodola, la fica in mostra. Non la vedo e c'è, eppure, come qualunque passante, l'edicolante che mi impresta i giornali, l'avvocato in bicicletta. Nasce ogni volta nello stomaco, sale al petto, dimora in gola. E spadroneggia. Eppoi non fa avvisi, non rulla tamburi: quando si presenta si presenta e basta, come un malfattore. Viene e ruba l'allegria, sua sorella fatua; viene e leva la polvere d'oro dai cuscini, e la mattina è pena, cordoglio. Arriva coi sogni: stanotte ho sognato Roberta con una camicia leggera, al centro della solita città trasfigurata a cui il sogno sposta le fontane in un altro quartiere, le case rotte le tinteggia di blu, bagna le quinte come dentro a un acquario, e tutto e liquido, tutto tremula. Al risveglio è uscita dal delirio e sta seduta in pizzo al letto, mi guarda, sorride, ha preso le mie labbra di ieri che sorridevano, a me ha appiccicato le sue, meste. Oppure s'insinua tra una canzone e un orsetto che spara alle bolle di schiuma, sale al piano della radio assieme a un ospite, e quando chiudo la porta mette un piede in mezzo. Persevera, maligna. Certe sere vola con gli uccelli rapaci sopra i rami del terrazzo, scherza con le formiche della balaustra, trova uno spiraglio - un andito, o abita un bugigattolo - e se io ci passo vicino mi s'appicca al collo, mi strangola. Mi ama - dice, - mi ama e non mi lascerà mai. Oh sì, la ripudio, io, combatto l'ostinazione che mostra, scanso i denti feroci. Se non la smetti ti racconto - le dico, e lei fa peggio: smania per essere diva, si atteggia con un cappello a Lauren Bacall. Non c'è verso di farle la pelle, è immortale, padrona di casa, padrona di vita, infingarda. Solo talora dorme, crede di aver vinto e si placa. E scappo in sella a un motorino azzurro in cima a una città arroccata. E lassù mi nascondo, cambio nome, connotati, finché senza nessuno sforzo mi scova, e la perversione ricomincia.

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Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

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Il numero settecento

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