Ecco, il momento è questo, sbiancato e cinereo, l'ho visto nei film e me ne sono invaghito. Dico il momento in cui la notte si avvicina e il giorno si trattiene, e ne esce un impasto di crema e cioccolata, l'orizzonte è liquido e si cena in radura. Portano due o tre brocche d'acqua e aranciata, apparecchiano sotto il gazebo o sulla veranda, e stanno lì a parlare finché non è tutto nero e giusto le fiaccole rompono il buio. L'ho fatto quando l'ho desiderato - mangiare appena fuori casa nel posto senza disperazione che è mio - e altre volte l'ho desiderato senza poterlo fare: già la mia vita aveva preso una scorciatoia per l'inferno. Poi è tornata sui suoi passi, sì, e ha ricominciato a girare come niente fosse, ma col peccato mortale del disincanto. Quelle lune, quel carro e quell'Orsa, quel vento, quelle colline che scompaiono sotto un mantello di ombre, quelle parole prima basse poi alzate dal vino, tentatrici, erotiche, in due, in quattro, l'appartarsi cercando un quadrato d'erba soffice, bere ancora e far l'amore in piedi perché erba soffice non ce n'è, ridere dei muscoli che dolgono, tentare un'acrobazia finale e poi scompigliati tornare dagli altri a raccontare le notti della memoria: questo è quanto io ricordo di più magnifico della mia vita immortale. E il desiderio, l'estro, l'inganno che fosse per sempre. Che per sempre si restasse vivi, vivi e incoscienti, e si avessero figli infiniti da dilapidare tra le gambe delle amiche, e appoggiarsi dopo sui gomiti alla staccionata a guardare chi passava al sentiero rotondo: i dimenticati da dio, i lontani, quelli che lui aveva diseredato, ché solo noi - la banda dei compagni fraterni e noi e basta - ci credevamo egregi. In epoche più prossime altre sere indescrivibili ancora ho rifatto, e ne ho memorie aspre e rimpianti, cene preparate in dolce combutta e poi niente fino all'alba - stupido me; - e certe imprese di tre giorni filati di cui non vado fiero e che pure hanno ancora agio di ricordo. Su tutte le battaglie, una che non ho combattuto mi intride: te che sei sparita prima che l'ora misteriosa - tra le otto e le nove d'estate - ti convincesse a domare la tua irrequietezza.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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