Ecco, il momento è questo, sbiancato e cinereo, l'ho visto nei film e me ne sono invaghito. Dico il momento in cui la notte si avvicina e il giorno si trattiene, e ne esce un impasto di crema e cioccolata, l'orizzonte è liquido e si cena in radura. Portano due o tre brocche d'acqua e aranciata, apparecchiano sotto il gazebo o sulla veranda, e stanno lì a parlare finché non è tutto nero e giusto le fiaccole rompono il buio. L'ho fatto quando l'ho desiderato - mangiare appena fuori casa nel posto senza disperazione che è mio - e altre volte l'ho desiderato senza poterlo fare: già la mia vita aveva preso una scorciatoia per l'inferno. Poi è tornata sui suoi passi, sì, e ha ricominciato a girare come niente fosse, ma col peccato mortale del disincanto. Quelle lune, quel carro e quell'Orsa, quel vento, quelle colline che scompaiono sotto un mantello di ombre, quelle parole prima basse poi alzate dal vino, tentatrici, erotiche, in due, in quattro, l'appartarsi cercando un quadrato d'erba soffice, bere ancora e far l'amore in piedi perché erba soffice non ce n'è, ridere dei muscoli che dolgono, tentare un'acrobazia finale e poi scompigliati tornare dagli altri a raccontare le notti della memoria: questo è quanto io ricordo di più magnifico della mia vita immortale. E il desiderio, l'estro, l'inganno che fosse per sempre. Che per sempre si restasse vivi, vivi e incoscienti, e si avessero figli infiniti da dilapidare tra le gambe delle amiche, e appoggiarsi dopo sui gomiti alla staccionata a guardare chi passava al sentiero rotondo: i dimenticati da dio, i lontani, quelli che lui aveva diseredato, ché solo noi - la banda dei compagni fraterni e noi e basta - ci credevamo egregi. In epoche più prossime altre sere indescrivibili ancora ho rifatto, e ne ho memorie aspre e rimpianti, cene preparate in dolce combutta e poi niente fino all'alba - stupido me; - e certe imprese di tre giorni filati di cui non vado fiero e che pure hanno ancora agio di ricordo. Su tutte le battaglie, una che non ho combattuto mi intride: te che sei sparita prima che l'ora misteriosa - tra le otto e le nove d'estate - ti convincesse a domare la tua irrequietezza.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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