Lugnola, Visciano, Sant'Urbano. La prima volta che ho sentito nominare questi posti fu dalla voce di Gastone, che ci andava a scattar foto nel settantadue. Io credevo fossero in qualche buco d'America o di Russia - dove lui era pur stato, in gioventù - e invece se aprivo la finestra quasi li vedevo. Finché un giorno se ne uscì che mi ci avrebbe portato, se Rita permetteva, e io pensai di dover riempire di vettovaglie una o due valigie. Mi dissuase, mentre riponeva uno spartito: Andiamo e torniamo in un pomeriggio - disse. Ci ripensavo ieri, appena la macchina ha preso a arrampicarsi in seconda e terza da quelle parti cigolando il semiasse, e poi passando oltre, ché la mia direzione era lo Speco francescano. Già ne ho parlato, su queste pagine, anni fa, di quella silenziosa meraviglia, (qui, per la precisione: https://sdraiatosuibinari.blogspot.it/2013/08/lo-speco-e-la-collina-ammazzamotori_22.html) e non ricomincerò. Mi preme invece raccontare la mia tentazione alla vita claustrale: poco o niente l'ho fatto in passato. La mia smania scontenta, la cerca di un senso netto all'imperfezione che sono, si placherebbero - io credo - in un posto così. Qui i passi che fai devono essere rispettosi, i pensieri pudichi, le parole pesate prima della pronuncia. C'è un orto, zappe e rastrelli, statue di madonnine, un pozzo colle monete gettate, un dedalo di celle e corridoi, collanine col Tau. Non avrei bisogno di scrivere, qui, perché questo posto è già esso scrittura, è già romanzo compiuto. Tante cose potrei non fare, qui, che altrove mi sembrano urgenti, e potrei non farle con la pace di chi sa che non sono necessarie. Tante rivolte soffocate, tante miscredenti preghiere. Potrei, invece, in sandali e saio, rifocillarmi del poco capendolo bastevole. Un discorso vecchio, lo so, ma che non entra in testa facilmente a chi come me è distratto dal mondo e dalla propria ambizione. Però poi quassù io vedo ogni volta - le due o tre all'anno che ci torno - un'altra disdetta: la mia debolezza. Le illusioni di una felicità terrena mi portano via: al sentiero che scende esploso di ciclamini, alla macchina col semiasse ancora buono, ad altri tornanti e poi alle città. Alle mie parole che costruisco mimetiche della perfezione; ma è un pallore la loro bellezza, un inganno. La perfezione è qui, dove a scaramanzia e obolo lascio un centesimo in una crepa del muro. Per via che ogni paradiso ha un prezzo che, per simbolo o concretezza, bisogna pur onorare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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