Ho mangiato una bontà in tanti posti del mondo, trovando appetitosa anche la marea di cipolle nella minestra in un ristorantino sugli Champs Elysées, che aprile cominciava, la mia giovinezza gli era grata, la sera allagava le botteghe di fiori, le piazze della rivoluzione brulicavano di ragazze e io ero felice. O il goulash intinto nel sugo denso in quel pentimento di dio che è Budapest spiata dal Bastione dei Pescatori, dalle cui terrazze il Danubio sembra davvero un serpente domestico, come dicono in una certa canzone che da ragazzo m'innamorava. Pentimento di dio - beninteso - per via che sono sicuro che lui si rammarichi di averci dotati di morte, con tutte le cose pazzesche che meriteremmo di guardare, almeno una volta nella vita. Ed erano una delizia anche le palle di Mozart, a Salisburgo, morse con le dita inzaccherate nelle strade sonanti - come tutto nobilmente suona in quella città - e cercate poi - una volta divorate le prime - in cioccolaterie asburgiche, sotto lo sguardo arcigno dei proprietari. E sapevano d'aspro e di sole le olive di Puglia e Calabria, piluccate a volontà da un cartoccio nella macchina aperta ai margini di una collina di grazia miracolosa, quell'estate che partimmo oscenamente in quattro e tornammo in più. E di sale del Tirreno e di mescolanze di sapore audaci le pietanze etrusche - il pesce tratto dal mare col rispetto atavico degli affamati, e poi cotto con gratitudine - che ho provato sulla spiaggia arredata al tramonto per i buongustai, mai per caso o da solo, prima e dopo aver girato leggero nelle orecchinerie ambulanti, nelle botteghe di tovaglie esposte su sedili di pietra, e averle regalato - prima e dopo, me lo ricordo - una collana di calcite, un anello finto a memoria vera. Ovunque ho mangiato godendone ho girato ricordi: una sequela infinita di film che dovrei riversare in dvd, se un qualche mago sapesse farlo. Eppure, in nessun posto come in quella stupida radura ammantata di crepuscoli mi sono alzato da tavola perfettamente sazio. Tanti la conoscono, alcuni ci han mangiato con me, impalcando caute bisbocce di vino e ore piccole. Non sta nelle rotte del turismo, e se ci volete venire dovete aspettare che vi inviti io. Là in mezzo, su quella spianata in discesa che sbraga le sdraio se ci metti sopra troppi pesi e ti tocca rincorrere le albicocche fino ai cespugli, là in mezzo, vi giuro, ho scoperto che il cibo consumato in un posto frugale è il miglior compagno dei tipi malinconici. E ciò detto: buon appetito.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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