Forse davvero gli artisti fanno una vita laterale, tutta sghemba, e non si raccapezzano nella quotidianità, e non è presunzione: al contrario, una debolezza. Per quanto mi riguarda trovo senso solo in certe canzoni e nella memoria - che mi restituisce i morti ancora vivi, e me li rimette davanti corpo e voce, così che non sono mai andati via sul serio; in certi film e in certi libri, che mi danno asfissia per quanto mi premono il petto; e in certi posti dove il mio passo è abituato meglio che in altri, mai visti, e inerti. Non credo alle cose artificiali - la politica, specie - ma agli uomini, senza etichette, se mai un giorno vincessero l'egoismo nelle sue forme più spregiudicate. Già una mutazione è in atto, lo vedo, in alcuni di noi: i migliori. Sospetto che Gino Strada - per dire - sia avanti di qualche passo, anche lui discosto, come un avido testimone di giustizie, e se fosse per me è a lui che affiderei il governo, senza elezioni, senza niente, e gli direi Scegli altra gente nobile, e portaci fuori da questo scempio. Quando è cominciato questo delirio di onnipotenza? Mi sa quando stavo male, da ragazzino: e stavo sempre male. Ho passato più ore - migliaia - a cercare di assolvermi dalla tentazione della diversità che a consolarla negli altri, e sì che di persone egregie ne ho incontrate, e ci ho fatto gran pezzi di strada assieme, e il più delle volte il meno strambo ero io. Cominciai nel '76, ad aprile, a manovrare ragionamenti così. L'acetone mi assaltò - e c'ero abituato - ma quella volta si mutò in comatoso - una mutazione che ne favorì un'altra - e per poco non ci lasciai le penne. Gli amici mi venivano a trovare, tenendosi a debita distanza, benché non fossi contagioso, e raccontavano storie di primavera e giorni allungati fino a soprendere la sera in un chiarore vago. Rimuginavo, nella breve lucidità, e deliravo, gran parte delle ore. Vedevo ombre di dinosauri arrampicarsi fuori dal muro fino alle persiane, e tra le stecche insinuarsi, dilagando scure per terra. E la camera che allungandosi diventava immensa, le pareti tremule, mia madre ora vicina ora lontanissima dal letto, gli antiemetici a bizzeffe ingeriti al sapore di fragola che incoraggiavano il vomito, anziché placarlo. Mi regalavano figurine perfino coloro che non mi regalavano mai niente, il che è tutto dire. I pacchetti restavano sigillati sul comodino; il comandante Mark sdraiato sulla coperta, in attesa che guarissi. Lì dentro a quelle smanie ho dunque preso a credermi inconciliabile col mondo, io solo destinato ad abbaiare ostinato. E ancora abbaio, quando scrivo, ed è un lavoro, fare il cane, a volte ingeneroso, che mi consegna però la libertà di essere sciolto - randagio che non sono altro - da qualunque compromesso.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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