Per restare in tema, un altro verbo che mi piace è portare, perché lo posso usare sia per dire ricevere che per dire recare. Ha questa dote bifronte, è ingresso e uscita, una specie di palindromo, nel significato e non nella forma. Mi hai portato fortuna e Portale i miei saluti sono frasi che ho scambiato spesso coi convenevoli di chi ho amato, e a parte questo hanno entrambe - dentro - quel verbo gentile, trasformista, che si adatta alle esigenze di chi ha care le sfumature di senso. Ecco, è a loro, alle parole, che dovremmo affezionarci; certo di più che ai nostri ideali, che si sgretolano a ogni colpo di vento, impallidiscono, tanto che distinguere la verità, nelle cose, è il vero eroismo degli uomini. Sono arrivato a un'età in cui mi è difficile entusiasmarmi: per la politica, lo sport, la comunicazione. Intuisco spesso un interesse, in queste faccende, un tornaconto. Non ho l'animo del soldato di dio: non credo alla chiesa, non credo che chi se lo merita finirà comunque per emergere, non credo che le case editrici siano baluardi di cultura. Sono aziende. Tutte, grandi e minute. Credo che nel calcio trucchino le partite più spesso di quanto si scopre. Che ci sono un sacco di porcherie - nelle gare di appalto, nelle case farmaceutiche, in televisione - di cui avremo notizia tra un po'. O forse tra cent'anni, o mai. E le informazioni sono parziali, mutilate, le notizie ingigantite, strumentalizzate. La verità è un lancio d'agenzia, un opinionista che strilla a pieni polmoni, un milite ignoto che scrive i proclami al segretario di partito. Siamo tutti un po' siriani, solo più fortunati. Non ci massacrano con le bombe ma con le bugie, le verità monche. Da cui deriva che per vivere ci tocca far conto su altre certezze. Io quoto le emozioni, allora; per quel che ne capisco sono le uniche vibrazioni che hanno le stimmate della sincerità. Quello, è il mio capriccioso metro di giudizio. Talora si addormentano, e per giorni non ne ho notizia. Poi dallo stomaco sale una leggera scossa tellurica, vibra all'altezza del torace e arriva alla lingua, al palato. Ne sento il gusto, come di un piatto cucinato con amore antico. La strada che scorre tranquilla sotto la mia auto è il pane; le canzoni - certe di loro, intoccabili - il companatico. Come oggi che di mattina addentavo le parole - ecco, ci sono arrivato; ecco la fine che si collega al principio - di Speriamo che piova; e di pomeriggio, al ritorno, quelle cupe e lucenti di una ballata di Pacifico. Così facendo, e in attesa di tempi migliori, mi riscopro integro e salvato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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