L'avverbio completamente si addice al mare, perché lì - completamente - io riesco a staccarmi dalla schiena le sanguisughe dei pensieri mortali e festeggio una costante primavera. Eppure laggiù, al confine della terra, completamente è anche un'impotenza: non so compiacermi per intero della bellezza, ne salta agli occhi una parte, talora, una miniatura, così che mi snuvolo delle ansie ma non so farmi intridere da tutta la perfezione. Vivo per cui il paradosso di essere incompleto in un posto dove tutto è ottimo e abbondante, come per antonomasia il vitto nelle caserme. Oggi passavano i pescherecci - due - molto più in qua dell'orizzonte, e mi dicono vada per la maggiore il turismo pescatore, di quelli che ci vanno sopra e gettano le lenze, tra Civitavecchia e Santa Marinella, e poi cucinano le prede a bordo, e se non tiri su niente resti a digiuno. Così impari. Nella pancia di Tarquinia, un po' scostati dalla spiaggia, stanno angoli come pezzi di memoria che mi è impossibile - grazie al cielo - sbianchettare. Ci ho camminato in altre epoche - ignaro di quel che sarebbe stato e che ora è ricordo che grava - con meno anni addosso e meno spaventato, meno narratore e più improvvisato ragazzo. L'agenzia immobiliare è sempre nello stesso punto, tra l'emporio di palloni Super Tele e l'edicola che espone vecchi numeri di Mark e Blek Macigno, per la tenerezza di quelli come me. E a parte questo. E a parte questo - e in realtà per tutto questo - prima o poi ci comprerò casa su questa costa tirrenica: una sciocchezza di 40 metri per soddisfare la tentazione di scriverci il romanzo più bello. Vi siete mai innamorati perdutamente di un posto come di una persona? Vi siete mai innamorati di un posto che - all'apparenza - non ha niente di speciale? Ecco, eppure, ecco: qui c'è tutta la mia salvezza; quando l'ho cercata scappando dall'asfissia dei giorni qui l'ho trovata e qui l'ho riposta. Tarquinia è un armadio a sei ante. C'è la canzone per l'estate dagli altoparlanti, la bancarella dove ho comprato a due euro Sepulveda, l'hotel Arconte, su in città, dove pagai due notti per una e mi sembrò un affare, e litigammo per la seconda e ultima volta, per via della perfidia di tua madre. Ecco la mia vita che ritorna, con tutte le stagioni nitide, e quelle che non racconto è perché non voglio, e lo farò un'altra volta, o mai. Ecco il disegno che si ricompone, e si mostra netto al netto della presbiopia, ecco i tramonti a mangiare sulla spiaggia, le lampade colorate sopra i bric-à-brac, le sere tiepide a bere passiti in faccia al mare, inghiottito dalla bocca scura di dio. Ho messo tutto in agenda - assennate rivoluzioni e progettini sapidi - tutto calendarizzato. In modo da riproiettare sul gran cinema della mia vita ogni desiderio scappato, riportarlo a casa e sfamarlo - come si conviene - d'ogni tenera premura.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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