Passa ai contenuti principali

Storytelling

Mi piace dare vita ai verbi con un gesto; tra tutti uno: ribaltare. Mi arrampico su per l'etimologia e scopro che deriva da alto o altare, da qualcosa che comunque sta più su di me e che devo provare a mettere sotto. Ribaltare il senso elementare delle cose può essere una sfida; vincerla una soddisfazione. Così, mentre mi ingegno a capire meglio che ribalta - ecco, appunto - calca la mia vita dopo che l'ho capovolta, che nuovi attori l'affollano, provo a smontare i luoghi comuni che mi paiono fallati, come i divani nuovi a sconto. Uno è quello sulla memoria, che non sarebbe capiente abbastanza per contenere tutto, e farmi ricordare ogni giorno che vivo. Beh, vi dirò: da che faccio questo mestiere di istigatore di scritture ho capito che la memoria ci fa, mica c'è. Nel senso che trattiene solo quel che le piace trattenere - il resto lo espelle - e se ne vanta. E l'ho capito perché ogni giorno la spremo per vedere che succo ne esce, e ogni volta è il succo di un'emozione. Quello, ho fermato dietro le sbarre: ogni evento che mi ha colpito e poi scolpito, ogni strazio faceto, tutte le prime sere di ora legale, alcuni tramonti sul mare rigati dai suoi capelli mossi come una tv con le interferenze, le mie dita la prima volta sui capezzoli, l'acetone comatoso che per poco non mi si porta via. Questa roba ora la chiamano storytelling narrativo, e ha il suo perché, a ben guardare. Rinforza le difese immunitarie meglio dell'aranciata, per come la vedo io. E in qualche modo mi certifica essere umano, perché non si ricorda che selezionando. Tipo il periodo che - in tabaccheria - mi innamorai del pulsante che sparava fuori i gettoni dal telefono pubblico. Infilavo gettoni e lo pigiavo. In continuazione. O meglio: in continuazione quando mio padre era al caffè. A mia parziale difesa chiarisco che avevo otto anni, per quanto possa essere un'attenuante. E tuttavia era un vizio, tipo chi gioca ai cavalli o accumula denaro.
Comunque, state a sentire. Una volta successe che entrarono due tipi trafelati, agitatissimi. Chiesero a mio padre tutti i gettoni che aveva in cassa: "Dobbiamo chiamare in Ucraina: - spiegò uno dei due, il meno emotivo - nostra sorella sta laggiù e ha un compagno manesco. Non abbiamo sue notizie da sei giorni. Ogni volta che proviamo a telefonare cade la linea". Pietro diede loro tutti i gettoni che aveva, ne scovò altri due o tre nel fondo di altri cassetti e quelli si accinsero all'impresa. Il disco del telefono, girando rumorosamente, accorciava a ogni tacca la distanza tra Narni e Kiev. Finalmente, lontano duemila chilometri, qualcuno rispose. E i due uomini, esultando, cominciarono a parlare, e intanto infilavano tutti i gettoni per mantenere intatto quel filo, esile come il ricamo di un ragno. Dieci, dodici secondi appena, però, perché io, perfidamente, mi feci largo in mezzo a loro e col ditino che arrivava a malapena al pulsante feci tlac e tutti i gettoni cascarono giù. Quelli mi guardarono increduli. Ma solo un poco; poi mi fissarono assassini. Mio padre accorse e mi salvò: "Scusatelo, mi è nato così: scemo". E mi spedì a casa. Non so come è finita, se hanno poi recuperato la linea o se la sorella gliel'hanno ammazzata di botte: chi ha mai avuto il coraggio di chiederlo?
E a parte questo, eccolo, lo storytelling. Mi ricordo quel giorno e niente altro attorno: nessun altro giorno incolore che pure ci sarà stato, a corredo. E mi ricordo il gesto di Pietro, che mi insultò in pubblico per la prima volta e però mi insegnò anche l'ironia. E sono emozioni - essere derisi e riderci sopra - che ti si tatuano a vita su ogni lembo d'anima. Tanto che a distanza d'anni non puoi fare a meno di raccontarle con il piglio del sopravvissuto.







Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...