C'è una città dove ho camminato bambino, sposo e amante, che mi stordisce di rapimenti improvvisi, a ricordarla e a ricordare gli anni e gli amori che avevo addosso a ogni frangente, e la lite con certi motociclisti, e il gelato che non ti andava, e la strada tutta al sole fatta per arrivarci - la seconda volta, dico, che era estate. La prima volta fu invece antica, e incosciente il viaggio, come di chi va senza sapere dove, e tutto quel che trova lo mette da parte per scriverne. Io non lo sapevo, allora, che stavo stipando malinconia in qualche buco dell'anima, sennò mi sarei maledetto seduta stante, e cancellato dalla biblioteca di Borges con una lima da carpentiere. O sarei andato da quelli dell'Oca a urlargli Viva il Nibbio!, e avrei tirato lì le cuoia, sulla terra battuta, calpestato di zoccoli, senza rimpianti. La terza volta è stata da scrittore, invece. Con tutte le vettovaglie che uno scrittore si porta dietro, dico: la sua schizofrenica visione del mondo, la distorsione degli occhi che gli fa vedere innocue le cose terribili e terribili le cose innocue, gli oggettini delle rigatterie - gli orecchini di calcite - che diventano trofeo di memoria con la scusa del regalo da riportare. E ci ho fatto l'amore da sultano, in una stanzuccia dal soffitto a spiovere e un bagno il cui lavandino era attaccato alla finestra - sempre l'ultima volta. Potevi lavarti un'ascella sola e vivere lo sberleffo di puzzare a metà, fanatico e felice, in quel B&B da lillipuziani. E a parte questo. Ha il potere di rimpiccolirmi gli anni, quella città; quella conchiglia che han messo in piazza e sul cui bordo i cavalli impazziscono e schiumano mi pare a ogni nuova visita un fonte battesimale: mi ci rinnovo, rivergino, ricompongo. Mi ci riassemblo ragazzo, allo stesso modo che se mi tuffassi nella polla della giovinezza. Forse ho un antenato priore, aristocratico altero, monaco di san Clemente, puttaniere di palazzo, verduraio, bottegante di passamanerie. Qualcuna girava di lì e lo ha visto, e se n'è intinta l'anima, e l'ha rapito e portato a Narni, dove gli ha fatto passare la smania del Palio con altre esaltanti disfide. Così da toscano mi son fatto umbro, ho involgarito il dialetto, e solo ora lo raffino, o ci provo, e coltivo la presunzione di insegnarlo agli altri per il tramite della mia tentazione del vuoto.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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