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La mia prima vacanza

Devo scrivere il mio nome su questa valigia. Mi hanno dato un pezzo di gesso, ma se piove il gesso scolorirà e nessuno saprà più che questa è la mia valigia. Ho la febbre, sento la fronte scottare, ma sono felice.
Jacob è partito già il mese scorso. Mi aspetta laggiù, dove il sole fuma nel mare come un ferro rovente e il vapore che sale dall’acqua offusca il tramonto. Laggiù mi curerò la tosse, il clima secco mi aiuterà.
Mio padre e mia madre sono da qualche parte là fuori, in attesa del nostro treno, tra mille altre persone in partenza per il mare.
La mia prima vacanza. Da quando sono nata, undici anni fa, è la prima volta che esco dal mio quartiere. Papà ha lavorato il doppio per pagare questo viaggio.
Un giorno è tornato a casa con una promozione. L’ingegnere ha apprezzato così tanto la sua dedizione che lo ha promosso caposquadra, e gli ha messo una fascia sul braccio. Sembra il capitano di una squadra di calcio.
Ora, quando s’arrampica sulle impalcature, è lui a dare ordini agli altri. Non impasta più la calce, ma c’è chi lo fa per lui, e qualcheduno lo chiama “Mastro Peter”, con rispetto.
La mia camera dà sul lato della strada dove escono gli operai. Negli ultimi giorni, per via della febbre, non mi sono potuta quasi muovere dal letto. Riesco a malapena ad aggiornare il mio profilo. Ho creato un gruppo a cui possono iscriversi tutti quelli che hanno la tosse. Ho meno richieste di amicizia, ultimamente. La mia passeggiata più lunga è dal letto alla finestra e ritorno. Ma ogni tanto sbircio fuori e vedo mio padre.
Lui esce per ultimo dal cantiere, dopo che tutti se ne sono andati. Prima passava dal caldarrostaio e comprava un cartoccio di castagne; con gli spiccioli avanzati prendeva due o tre radici di dulcamara.
Da un po’ di tempo non porta più a casa niente. Ha dovuto risparmiare per questo viaggio. E poi, una volta che tornavo da scuola, ho visto che il caldarrostaio non c’era più, al solito angolo, e la drogheria era chiusa. Ho dato un’occhiata intorno, mentre mia madre cercava di trascinarmi via, e ho visto il muro accanto alla bottega pieno di scritte scure. Non ho fatto in tempo a leggere tutto, ma il droghiere deve aver fatto arrabbiare un sacco di gente. Forse per via dei prezzi, o dei biscotti stantii.
Dove finisce il nostro quartiere hanno messo un cancello di legno, e ai lati del filo spinato così rotondo e fitto che sembra un roseto cupo. Papà dice che c’è stata un’epidemia, dall’altra parte, e che quell’ostacolo serve per impedire che vengano a portarci il contagio. Siamo fortunati, a esserne ancora immuni. Purché tra i sintomi del contagio non ci sia la tosse.
Quando Jacob è partito, è partito di notte, con tutta la famiglia. La sua tosse era più cattiva della mia, in classe copriva la lezione della signora Ritmann. Non poteva perdere altro tempo. Li sono venuti a prendere, lui e la sua famiglia, a cui hanno permesso di accompagnarlo, con una macchina dell’ospedale. C’era una croce sul cofano. C’è una foto sul mio libro di storia con la stessa immagine. Ma non ci siamo ancora arrivati.
Ho guardato dallo spioncino, e quando è passato davanti alla porta Jacob mi ha sorriso, come sapesse che ero lì. I medici vestiti di marrone gli hanno urlato di far presto, hanno spinto tutti giù per le scale, lui ha perso le sue cuffiette, suo nonno è inciampato ed è caduto in ginocchio. Lo hanno tirato su a forza, e poi ho sentito un colpo che sembrava il tonfo di uno che batte un pugno sul muro. Sono stati sbrigativi, un po’ scortesi, ma vanno capiti. Non possono sprecare un solo minuto per portarci in salvo.
In quel momento Jacob deve aver smesso di sorridere, ma non ne sono sicura perché mio padre mi ha tirato via dalla porta. “Non c’è niente da vedere”, ha detto. Piangeva di felicità per Jacob che andava a curarsi. E non voleva che io fossi indiscreta.
Quando avrò finito di scrivere il mio nome su questa valigia potrò partire. Mi hanno messo in una stanza della stazione insieme ad altri ragazzi. Qualcuno ha più anni di me. I più piccoli piangono, cercano le madri. Anche per loro deve essere la prima vacanza.
I grandi devono essere a fare i biglietti. Tra poco mio padre arriverà, col suo sorriso largo, e mi prenderà sotto braccio per farmi salire sul treno, e porterà la mia valigia.
Il gesso mi fa le dita polverose. È una sensazione che conosco. A scuola sono la più veloce a fare le equazioni. Poi pulisco la lavagna e la signora Ritmann mi dice “Bravissima”, e mi dà una caramella di anice. È il premio per chi fa le equazioni di primo grado senza sbagliare.
Quando Erika mi dice che sono stupida e non capisco le cose, e sono una povera ritardata, le rispondo che lei non sa fare le equazioni come me. E Jacob mi difende.
Mentre torno a casa sento ancora la polvere di gesso sui polpastrelli. A volte strofino le mani sui ciuffi d’erba cresciuti tra le crepe del muro della latteria. Ci lavorava un sacco di gente, in quel posto. Poi l’anno scorso l’hanno chiusa, perché il latte scarseggiava. Ora ci sono dei soldati, con le giubbe dello stesso colore dei medici, che giocano a carte e a due a due fanno la ronda nel quartiere.
Tre giorni fa, mentre sbirciavo dalla finestra, ho visto che anche il signor Doorman, il notaio del palazzo dirimpetto, e la signora Platz, che aggiusta gli ombrelli in fondo alla via, avevano sul braccio la stessa fascia da capitano di papà. Mamma mi ha tirata via un’altra volta dalla finestra mentre passava un carro armato, che serve a scoraggiare quelli che cercano di scavalcare il filo spinato e venire nel nostro quartiere. Prima però ho fatto in tempo a vedere altre fasce da capitano su altri bracci di quelli che passavano. Tutti premiati per il loro lavoro.
A noi son venuti a prenderci stamattina, e mi hanno fatto saltare giù dal letto che ancora era notte. Ci hanno fatto portare l’essenziale: una valigia per uno e via, che avevano da andare a occuparsi di tanta altra gente bisognosa.
Mentre io mi curerò, mio padre potrà lavorare. Gli hanno garantito un buon impiego. Così, al mare, io e la mamma non dovremo stare sole e lui tornerà la sera in albergo, felice di trovarci lì.
È un albergo fantastico, quello dove ci portano. Ci sono le docce, e il ristorante, e la sala dei divertimenti per noi ragazzi. Saremo sorvegliati da infermieri che avranno a cuore la nostra salute. Ci faranno le analisi del sangue, e ci daranno tutti i farmaci necessari. Così ha detto mia madre.
Ho sentito alla radio che parlavano di noi. Un signore dalla voce metallica voleva che tutti noi malati diventassimo “Una priorità per la nazione”. So cosa significa “priorità”: ho capito che gli stiamo a cuore. Poi ha detto qualcosa sulla nostra igiene personale. Deve aver saputo che Jacob si lava poco, che altri bambini non amano pulirsi le orecchie, ma la cosa non riguarda me: mia madre mi costringe a lavarmi il collo, le orecchie e i piedi tutte le sere.
Ha detto che era importante fare pulizia. Ha detto pulizia etnica. Deve essere un tipo di igiene molto accurata. Forse serve ad evitare il contagio.
Erika direbbe che non capisco quello che mi sta intorno. La realtà, dice lei. Ma scommetto che non lo sa neanche lei, cosa vuol dire “etnica”. E forse nemmeno “priorità”.
Accanto a me una bambina non smette di fissarmi. Avrà cinque anni. Ha in mano un gioco rettangolare che fa un sacco di suoni: mi pare di averci giocato, a una festa di compleanno.
Io non ho una sorella piccola; se ne avessi una mi piacerebbe che somigliasse a lei. Quando sarò grande proverò a fare una figlia così.
Ecco. Ho finito di scrivere Elizabeth sulla valigia. Ci ho disegnato accanto una stellina. Come quella che sta sulla fascia da capitano di mio padre. A scuola ho imparato che è il simbolo della nostra gente. Ma forse la gente non dovrebbe avere troppi simboli. Dovrebbe vivere come viene.
Se chiudo gli occhi mi piace immaginare che Jacob sia accanto a me. Faremmo il viaggio insieme, se fosse qui. Lui mi direbbe che sono solo una bambina, dal momento che è tre mesi più vecchio. E magari mi direbbe di aprirli, gli occhi, anziché tenerli chiusi.
Me lo dirà al mare domani, quando lo rivedrò. E mi dirà di non fidarmi dei grandi, perché raccontano solo bugie. E promettono cose che non esistono. E sono cattivi, e gelosi come sciacalli, e stupidi. Arriverebbe a dire che il mare non esiste, che è tutta una loro invenzione. Ne ha di fantasia. Sarebbe capace di negare il mare stando in piedi sulla spiaggia.
Io l’ho già visto il mare: nella mia testa. So cosa mi aspetta. Prima la guarigione, poi il ritorno a casa e la vita allegra che voglio fare.
Domani mentre l'acqua salata ci solletica i piedi riderò con Jacob delle sue paure, gli restituirò le cuffiette che ho trovato sulle scale e gli dirò “Hai visto, testone?” Poi lo abbraccerò e gli darò un bacio. Ma solo se prima si sarà lavato i denti e le orecchie.
Lui continuerà a dire che si annoia, e che i grandi insegnano ai figli solo a essere cattivi. E io lo lascerò dire, tanto so che non lo pensa.
La vita è un gioco divertente. La mia fronte già scotta di meno.
Non sono ancora sulla via del mare e già mi accorgo di stare per guarire.


                                                                                                               
                                                                                                            Varsavia, 13 giugno 2021

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