Eccola che arriva, come d'estate la patina bianca sul cioccolato, e allo stesso modo non è che un difetto apparente. All'improvviso mi veste - è successo poco fa, a pranzo, tra un boccone di pane intinto nel sugo e una nuvola scemotta sopra casa - e vestendomi mi smorza, mi placa, e resto fermo e seduto, apparentemente sfinito. Sto buono invece perché se mi agito ho paura che scappi dalle ossa. La contentezza, dico. Oh diamine, è così che la chiamo, ognuno la battezzi come crede. Perché mi piace quella sillaba quasi ripetuta - ten tez - come un soldato che suona una campana per annunciare che è finita la guerra; o Babbo Natale che mescola col cucchiaio la tisana al rosmarino, ai tempi in cui gliela lasciavo - credulo - sulla brace fioca. Basta che qualcosa giri per il verso giusto - una diretta in radio fatta come dio comanda, una parola illuminata che non mi veniva dentro un racconto, Susi che prende 8 a filosofia dopo un pomeriggio passato a studiare insieme Eraclito - e lei si presenta. Morigerata, discreta, devota. E io la insufflo come un vapore, come i fumenti di mia madre quando la tonsillite mi uccideva. Ha a che fare con l'indole del narratore che tento di essere, la contentezza, con l'etica che mi sono appuntato al bavero, e che gioca col concetto di felicità bastevole. Uno stato di piccola grazia, cioè, di gioia intima e su misura per le mie pretese. Che sono sempre quelle di una vita impegnata e tranquilla - dopo le montagne russe del passato. Altri giorni in cui s'ambienta dentro di me - e appena lo fa già scappa, mortificata della visita breve - sono quelli in cui credo di fare tra tante la scelta giusta. Che è la più faticosa e necessaria - così la riconosco: se ha questi criteri. Mi costa insonnia e una apprensione che lèvati - con le persone cui voglio bene, col mio lavoro di parole che a volte pare impotente a questo mondo osceno, - ma non me ne pento mai. Così il senso del dovere ha una logica, e perfino un'utilità. Come ritrovare su una scaffalatura antica il primo libro che ho letto, appena imparai. Chi ci sperava più, che ancora ci fosse. Roba del 1972. A scovarlo per caso - cercando altro - la contentezza mi ha preso, ed è come un mal di stomaco che speri non passi tanto in fretta.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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