Passa ai contenuti principali

La banca ai suoi piedi

Sul bordo del fazzoletto che è largo Villa Glori, stamattina, un uomo con una grande barba prussiana suonava da dio un flauto traverso. Era un finfirulin leggiadro, un soffio di poesia dentro i fori - ho riconosciuto Il cardellino di Vivaldi, perché lo suonava anche Gastone, quando lo pigliavano attacchi di disamore per il pianoforte. La custodia, per terra, era piena di monete, e la gente, arrivandogli a tiro, rallentava, si fermava; qualcuno ha aperto in faccia un sorriso insperato come per la fine di un patimento, quasi che quell'uomo avesse in tasca una calamita che attirava i melomani. Portava calzoni corti, le gambe erano viola di vento intirizzito, e avrà avuto sessant'anni. Ho pensato alla sua casa, se ne ha una: forse a lui non spiacerebbe sistemarsi in una chiatta sul fiume, e se abitasse a Roma so che sarebbe possibile. Li chiamano fiumaroli: vivono dieci metri sotto il livello della strada, beati loro. Per scelta, voglio dire, non per povertà. Io andavo in banca a mettere nelle mani di quelli che ci lavorano il mio magro stipendio, e mi sono sentito uno schiavo. Mi ci sento sempre, a ogni versamento mensile che faccio, ma in genere è un sospetto, un'aria che passa. Oggi assediava, e avrei voluto essere lui. Niente broker con cui ragionare di cose che non capisco, niente piani di accumulo, nessuna agenda blu a Natale. La sua banca era ai suoi piedi - altro che costruita attorno -  e dava l'idea di essere l'uomo più libero del mondo. Aveva di che vivere per un giorno, forse due se non è un mangione, e se non ha la tv e il wi-fi e alla sera legge con una candela. Ma da qui a domani è felice, e domenica si vedrà. Non credo di poter dire altrettanto, non riesco. La paura di non avere abbastanza tra un anno, due, dieci, mi avvilisce. E centellino, risparmio, compro scarpe da ipermercato, prendo in prestito i romanzi in biblioteca. Non so suonare ma forse dovrei mettermi a scrivere per strada. Un banco che non impicci a nessuno, che non ostruisca il passaggio, non faccia saltare la mosca al naso alla Municipale. Un quaderno. E parole regalate ai passanti, che - bontà loro -  strapperanno il foglio di una storia e la porteranno via con sè. Se alla fine del giorno avrò di che sopravvivere, bene. Altrimenti vuol dire che la mia arte non è abbastanza generosa da sfamarmi.

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...