Crock,skiok, tump: ecco che la casa espelle i suoni di mezzo secolo,
assorbiti e mai cacciati, come invece temevo. Ecco che mi spaventa e
allegra con i sobbalzi di Gino che sbuffa nella legnaia, di Gastone che
suona le Polacche, di Pietro che gira la chiave nella serratura.
Domenica ci ho fatto caso, erano lì, tutti quei rumori, ad aspettarmi,
che sono salito a prendere la crostata. Vuota la casa dove sono nato, e
ci vuole il mio coraggio quando è vuota ad entrarla, esplorarla,
camminare dalla luce delle stanze sulla strada maestra al medioevo di
via della Pigna.
Avevamo concordato via whatsapp una incredibile rimpatriata, io e i miei due amici più antichi: Luca e Paolo. Non davanti a un distributore del caffè, la telecamera a riprenderci, ma in via Aspromonte, che sembra una canzone di Faber e invece è un vicolo arrampicato di Narni. Così ho chiesto a Rita se faceva un dolce, Che dolce? mi ha concesso e io Il migliore, c'è da chiederlo? Ho incartato la crostata e l'ho fatta sposare al Montecristo, Nettare di Puglia, mi ha garantito il vinaio - e io che so di alcolici quanto di fisica quantistica mi son fidato, pure per via di quell'eco vecchioniana che innamora.
Poi a piedi fino a lassù, per le scale impertinenti dove rotolavano i palloni arancio della nostra infanzia, ma al contrario, per il verso della fatica, fino a reggere l'impaccio del tempo che c'è stato in mezzo tra quel vecchio allora e questo crudo adesso, a sbrigare i convenevoli in un abbraccio, e a ricominciare a vivere insieme come non avessimo mai smesso. Abbiamo rinvenuto una stagione e sortivano lacrime e risa, e pezzetti di ricordi perduti che un altro - a turno - incollava ai vuoti di memoria, e partite di calcio in distributori smessi, sulla strada per Orte, un sabato, con uno dei musicisti italiani più importanti del Novecento, in giacca beige e mocassini, che tirava d'effetto ragionando con Gastone - più in parte: tuta e scarpe da ginnastica - di dodecafonia.
Un pesto di basilico e tartufi, altro vino a scongiurare la mia ostinazione all'acqua, altro piovere di storie passate eppure dentro di noi, eppure in qualche modo vive. Il modellino della 600 che precipita in una scarpata e prende fuoco, in quel filmino temerario di banditi - Non glielo dicemmo mai, a tuo zio, ma si vedeva che era finta, Francé; Gastone che mangia gli spaghetti dell'una alle quattro del pomeriggio, e gli restano tutti incollati alla forchetta; Luca che coniugava come rosa rosae la formazione della Polonia ai mondiali del '74: Tomaszewski in porta e poi gli altri dieci, e io che lo ascoltavo incantato. E tanta altra vita: le bocce a Razzone, la spuma ai cento coloranti che però non ci ha ancora uccisi, la pizza sopra ai termosifoni di ghisa, in quarta elementare.
Se mi si fosse intuita - in una notte di quelle - la vita che ho fatto, il dolore, il disprezzo che l'hanno resa celebre ai miei centoquattro lettori, forse avrei scelto di finirla lì. Al diavolo, però: così facendo non mi sarei potuto godere - dopo trentanove anni di inconoscienza - l'immortalità di una festa. Evento per il quale, fondamentalmente, devo esser sopravvissuto.
Avevamo concordato via whatsapp una incredibile rimpatriata, io e i miei due amici più antichi: Luca e Paolo. Non davanti a un distributore del caffè, la telecamera a riprenderci, ma in via Aspromonte, che sembra una canzone di Faber e invece è un vicolo arrampicato di Narni. Così ho chiesto a Rita se faceva un dolce, Che dolce? mi ha concesso e io Il migliore, c'è da chiederlo? Ho incartato la crostata e l'ho fatta sposare al Montecristo, Nettare di Puglia, mi ha garantito il vinaio - e io che so di alcolici quanto di fisica quantistica mi son fidato, pure per via di quell'eco vecchioniana che innamora.
Poi a piedi fino a lassù, per le scale impertinenti dove rotolavano i palloni arancio della nostra infanzia, ma al contrario, per il verso della fatica, fino a reggere l'impaccio del tempo che c'è stato in mezzo tra quel vecchio allora e questo crudo adesso, a sbrigare i convenevoli in un abbraccio, e a ricominciare a vivere insieme come non avessimo mai smesso. Abbiamo rinvenuto una stagione e sortivano lacrime e risa, e pezzetti di ricordi perduti che un altro - a turno - incollava ai vuoti di memoria, e partite di calcio in distributori smessi, sulla strada per Orte, un sabato, con uno dei musicisti italiani più importanti del Novecento, in giacca beige e mocassini, che tirava d'effetto ragionando con Gastone - più in parte: tuta e scarpe da ginnastica - di dodecafonia.
Un pesto di basilico e tartufi, altro vino a scongiurare la mia ostinazione all'acqua, altro piovere di storie passate eppure dentro di noi, eppure in qualche modo vive. Il modellino della 600 che precipita in una scarpata e prende fuoco, in quel filmino temerario di banditi - Non glielo dicemmo mai, a tuo zio, ma si vedeva che era finta, Francé; Gastone che mangia gli spaghetti dell'una alle quattro del pomeriggio, e gli restano tutti incollati alla forchetta; Luca che coniugava come rosa rosae la formazione della Polonia ai mondiali del '74: Tomaszewski in porta e poi gli altri dieci, e io che lo ascoltavo incantato. E tanta altra vita: le bocce a Razzone, la spuma ai cento coloranti che però non ci ha ancora uccisi, la pizza sopra ai termosifoni di ghisa, in quarta elementare.
Se mi si fosse intuita - in una notte di quelle - la vita che ho fatto, il dolore, il disprezzo che l'hanno resa celebre ai miei centoquattro lettori, forse avrei scelto di finirla lì. Al diavolo, però: così facendo non mi sarei potuto godere - dopo trentanove anni di inconoscienza - l'immortalità di una festa. Evento per il quale, fondamentalmente, devo esser sopravvissuto.
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