Non è per la taccagneria - anzi: a volte ho le mani bucate - ma per altre sintonie che vivrei in Scozia. Ha a che fare col mio inclinarmi all'autunno come uno stelo all'erba. O un faccendiere al denaro, se gradite un'immagine meno sdolcinata. È lassù che potrei assecondare la mia storta voglia di andar per boschi in cerca di elfi e folletti, di fate che comparirebbero nello smartphone, tipo in quella panzana cui abboccò perfino Conan Doyle, bugia tenerissima e misteriosa. Ho questo carattere d'ombra e foresta che si sposa con la cerca di cose che non esistono, eppure vorrei tanto il contrario. Ho la certezza che m'ambienterei placido sulle rive del Loch Ness a scrutare se per caso arriva Nessie, e in ogni increspatura, in ogni cerchio d'acqua, intuire la testa del mostro. Poi per i campi infiniti, per le terre alte, le colline di greggi lanose e giù fino al mare, guiderei un maggiolino arancione, sbuffandolo, smarmittando, con la cassetta di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band che gracchia per duemila miglia. È una voglia che torna a onde, questa di partire per certe vacanze interminate; è il gusto - che mi manca - di fare due passi prima di cena assieme a un medico di campagna, su una stradina bianca sospettata di licantropi. E poi davanti a un camino gigantesco, in un castello dove qualcuno una volta ha inteso rumor di catene - mentre il biancospino dorme sotto la neve -passare l'inverno a dar fondo a tutte le bottiglie di brandy che trovo, tanto non dovrei rimettermi in viaggio. Forse sarei felice, in una dimensione così. O forse mi mancherebbe il qui, la micidiale urgenza che ho di un futuro migliore. Che per altro ho già inaugurato, paradosso temporale che non sono altro - tanto che quando parlo del futuro che vorrei già ci sono dentro, ed è come innamorarsi ogni giorno di una donna che è la tua: una bella fortuna. Mi sa che dovremmo liberarci dell'apparenza, allora. L'apparenza è l'incerto, il male incombente, il presagio di un dolore. La foschia che s'assiepa ai tetti appena sgocciola l'estate. La sostanza invece io temo sia: che siamo immortali. E lo saremo per sempre. E allora tanto vale organizzarsi - armi e bagagli - in un posto dove trovar agio a dispetto di tutte le dicerie che ci rallentano.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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