Ciao pietre, ciao casa, ciao città. Rincollo tenerezze nuove e vecchie ogni volta che commetto l'empietà di salire a Narni, e annaspo nel tempo che tira sotto, che ha sabbie mobili al posto del pavimento. Sei fatto a fantasie - protestava Gino quando piantavo grane per la gazzosa e poi cambiavo idea. Una volta trovammo sul semicerchio di pietra davanti al Suffragio un albo del Piccolo Ranger, nuovo nuovo, e io credei d'esser nato con la camicia, e che la vita sarebbe stata un po' così, a grandi linee. Direi che si allenava a prendersi gioco di me già allora - la mia vita, invece; di me e del mio incauto ottimismo, delle lucciole scambiate per lanterne, e della fiducia malriposta. Pure, a ripensarlo oggi, ha una dolcezza, quel tempo, che squaderna. Sono tornato ieri nel rettangolo di giochi dove quella stagione sembrava per sempre: San Girolamo. È tutto in abbandono: i gradini rotti appena sotto il chiosco della donna zoppa, le radici degli alberi come dita di mostri aggrappate alla terra, il triangolo di cemento in mezzo a cui avevano piantato l'altalena. L'altalena non c'è più, sopravvive appena in certe foto stente e in un film che non so come riversare in dvd: nessun videomaker ci perde più tempo, oppure mi chiede una fortuna. Lo girò Gastone, naturalmente, e Gino faceva da comparsa al modo di Alfred Hitchcock, passando davanti all'obiettivo per prendere l'autobus, pagando il biglietto all'impiegato sul bretellino - che si faceva così tutte le corse prima che inventassero una macchinetta e un verbo orrendo: obliterare - e raccogliendo un cappello schiaffeggiato dal vento. Niente improvvisazioni, toccava attenersi alla sceneggiatura. Anche il vento fece la sua parte. Poi ho risalito la città come Umberto fa con Trieste, ogni volta che rileggo quel miracolo. Se fossi poeta vorrei scrivere a quel modo, ma non sono; perciò ho scelto la scorciatoia del narratore. E in mezz'ora ero a Sant'Anna, e c'è un cortile dove giocavamo a calcio, però adesso è vietato entrare. Proprietà privata - c'è scritto appeso a una catenella. Là dentro vivevano le suore, e pregavano, e noi a otto anni imprecavamo per fare corto circuito, e chissà se oggi ancora gli universitari hanno la stessa irrispettosa innocenza, o sono già adulti e malati a vent'anni. Infine ho preso una delle tante vie di scale che portano in centro, una delle meno stravolte, con sui sassi ancora l'ombra delle nostre suole, i resti del chewing gum della prima ora. E allegro d'un allegria da non invidiare, sono rientrato - solo e contento - nei miei cinquant'anni.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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