Dieci anni fa andavo in televisione una volta alla settimana a parlare di calcio. Ne facevo un piccolo vanto, come di chi si ritrova in un contesto alieno e inorgoglisce di diversità. Mi piaceva raccontare le partite romanticamente, in modo imprevedibile, come han fatto Gianni Brera e Vazquez Montalban. Ho sempre trovato il calcio una lampante metafora della vita: appassionante, noioso, frustrante, sensuale, come lei è. Altri sport la sfiorano, la rappresentano meno nitidamente. Il calcio la sublima, canta e scolpisce con impressionante fedeltà. Anche ai particolari. Magari una volta di queste mi dilungherò sull'argomento. Stavolta mi preme altro, mi preme dirvi cosa accadde una sera, dopo la trasmissione. Per il fatto che oggi - senza un motivo - la stanza dentro la testa nella quale il ricordo era chiuso si è aperta di nuovo. E lui è uscito. E quindi. Capitò mentre risalivo in macchina, mezzanotte passata. Gennaio, foschia, i semafori a galleggiare in un'aria densa che ne spandeva i colori. Nessuno - un cane, un'anima - in giro. Il caffè Clapier chiuso, i nottambuli già costretti a rincasare, non del tutto sbronzi e perciò delusi. La Panda parcheggiata sulle strisce blu, sotto un lampione, a duecento metri dagli studi televisivi. Apro la portiera, entro, mi siedo, allaccio la cintura. D'istinto, guardo lo specchio retrovisore. Nel sedile posteriore c'è qualcuno seduto. Una figura umana, se non fosse per gli occhi accesi, rossi come per una malattia, roventi. Slaccio la cintura, caccio un urlo, spalanco la portiera, balzo fuori. Le ginocchia prendono a tremare. Guardo traverso il lunotto, gestendo il coraggio che ho. Niente. Nessuno. Il sedile vuoto, un fermaglio di Ale abbandonato da giorni, la luce del lampione a piovere là una chiazza gialla. Allucinazione? Apro il portabagagli, ci frugo dentro alla ricerca di un miracolo, un indizio strano che mi convinca che non sono matto. Sono la pantomima di me stesso, mi rappresento per un pubblico che non c'è, mi immagino muovermi, gesticolare, inorridire, mentre mi muovo, gesticolo e inorridisco davvero. Mi calmo, razionalizzo, risalgo in macchina, accendo la radio, la luce sul cruscotto, abbasso i finestrini, in barba al freddo. Telefono a casa: "Sto arrivando". La casa che non c'è più. La donna che non c'è più. "Vai piano, ti aspettiamo sveglie" - mi dicono, e la donna e la casa. Eseguo, pavido. E così, morbidamente, nella bruma notte della città industriale - con la coda tra le gambe e l'avamposto dell'orrore che sarebbe stato - mi rincammino nella normalità che non ha spiegazione.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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