Dicono che il primo temporale d'agosto spenga l'estate, come tuffare un ferro rovente dentro un bacile: sfuma, e poi quando l'afferri è tiepido. Così anche stavolta ho aspettato la pioggia: per rinsavire. La stagione feroce non fa per me, sono nato a gennaio. Mi entra in casa e spalma sulle pareti uno strato di asfissia, ed è come stare in una piscina di fango. Però stamattina è arrivato, l'acquazzone: forte e tempestivo - mentre uscivo di casa. E il solito viaggio - dalla collina dove abito da un anno fino alla radio dove lavoro da diciotto - è stato nostalgia, per quei ricordi che ti afferrano quando basta una somiglianza tra oggi e loro. Pioveva d'estate anche quando vivevo in tabaccheria a grandi ore, improvvisamente; si scuriva il cielo, brontolava come Gino alle prese con un cliente molesto, sgombrava i tavolini all'aperto di tutti coloro che aspettano la morte al caffè, per tutta la vita, e iniziava a precipitare dappertutto. La pioggia era in quel frangente una barriera. Tra me e il notaio Imbellone - a corto di Skandinavik e immalinconito dietro la finestra, la cravatta lenta al collo e la pipa vuota in tasca; tra i tabagisti dalle dita gialle - in crisi di astinenza, dentro le macchine - e le stecche di Mercedes all'asciutto; tra il suonatore di violino e la sua custodia, dimenticata da me durante l'accattonaggio. Rimbombava, scoppiava - Tubrum! Bum! Tunfbrubutum! - e faceva rintanare i ragazzi sotto la tenda del fotografo, che somigliava a una campanile di stoffa, di là dalla strada eppure distante - per via di quella diga rotta - un milione di chilometri. Solo l'avvocato Urbani si trovava a suo agio - chi se lo dimentica? Aveva fama di licantropo, e sotto il diluvio camminava disinvoltamente, senza ombrello e cappello, con un marcato ghigno di sfida, elegantissimo - un signore che somigliava a Paolo Conte, e nella voce e nell'aspetto. Raggiungeva il bancone e come se fuori ci fosse bel tempo salutava gioviale, chiedeva di tastare cinque o sei Toscani, sceglieva i più teneri, si ravvivava i capelli fradici con la mano ossuta e poi usciva, tutto contento. Raccontavano che nelle notti di tregenda si mettesse sotto le grondaie a far la doccia vestito; e ululasse arrampicato sui tetti, estasiato, ad ogni plenilunio. Io lo aspettavo, quando pioveva a quel modo. Sapevo che era l'unico in giro, e che si divertiva un mondo tra lampi, tuoni e pozzanghere. Quando schiariva, tornava scontroso, come contrariato da quel sollievo. A una donna - con cui aveva una relazione da trent'anni e che gli chiese una buona volta di sposarla - rispose "Eh, quanta fretta! Mica si fanno su due piedi, 'ste cose!" Era nato così: personaggio. Di quelli che oggi mi pare non ci siano più. E d'altra parte anche la mia bottega - venduta da tanto ma che non riesco ancora a definire di altri - è un'altra cosa, e pur restando nello stesso posto di sempre si è come trasformata, involgarita, riempita di slot machine. Tanto che nessun lupo mannaro ha più voglia di entrarci a far compere.
Vorrei ricordare il nuovo romanzo a chi ha piacere di leggermi.
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