Il mio sogno ricorrente è fare un viaggio su una diligenza, coi cavalli, il cocchiere, il forziere dell'oro e quattro compagni d'armi, d'inverno, in una contea selvaggia, coi lupi a rincorrerla e ad abbaiare alle ruote. Darei un centimetro d'altezza per una cosa così, purché duri abbastanza da farmi passare la voglia. Una settimana, dico, una settimana a spaccarmi la schiena sulle assi di legno di quel trabiccolo, sulla strada sterrata che lacera due file infinite di alberi, un bosco fitto come la foresta nera. Ci fermeremmo a cambiare i cavalli in qualche stazione di posta dove il montone non sia rancido, e dormiremmo sui pagliericci in uno stanzone oscuro, illuminato da un camino gigantesco, tutti insieme. Le ombre degli animali, fuori dai vetri, il woof degli orsi all'affacciarsi della radura, i respiri gelati, le coperte avvolte ai corpi, la resina che scoppia nel fuoco: tutto concorrerebbe a farmi scrivere un grande romanzo. E il mattino appresso ripartire, appena albeggia, e stancare la modernità portandosi dietro appena una confezione di Tachipirina, per le emergenze, e nessun telefono, e non sapere come va il mondo, per quel tempo intero. Dovrebbe avere dei vetri spessi, la diligenza, traverso cui guardare altri animali feroci ghignarci contro, e volpi rosse e cinghiali attraversarci il cammino, e ritrovarsi a un certo punto in mezzo al nulla, al buio rotto solo dalla lanterna a cassetta, assediati da rumori di anime bianche che strusciano fiori di spine, e fantasmi dispettosi. E così cercare un nuovo ricovero, un fienile, una casupola abbandonata, e lì svoltare un'altra notte, ancora eccitati di paura. Perché a me la paura ha sempre dato scuse per vivere, ho sempre pensato che se una cosa mi atterrisce, beh, la devo proprio respirare, inalare. Stringerei amicizie, parlerei di libri, parleremmo - io e i compagni d'armi - di racconti spaventosi, che ingigantirebbero le sagome dei mostri dietro agli alberi. E al sicuro nell'abitacolo proveremmo il brivido immortale di tutti gli uomini che hanno inventato l'ignoto e hanno scoperto che era bellissimo viverci dentro, con appena un diaframma - un carro coperto, una casa, una porta - a proteggerli.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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