Il mio sogno ricorrente è fare un viaggio su una diligenza, coi cavalli, il cocchiere, il forziere dell'oro e quattro compagni d'armi, d'inverno, in una contea selvaggia, coi lupi a rincorrerla e ad abbaiare alle ruote. Darei un centimetro d'altezza per una cosa così, purché duri abbastanza da farmi passare la voglia. Una settimana, dico, una settimana a spaccarmi la schiena sulle assi di legno di quel trabiccolo, sulla strada sterrata che lacera due file infinite di alberi, un bosco fitto come la foresta nera. Ci fermeremmo a cambiare i cavalli in qualche stazione di posta dove il montone non sia rancido, e dormiremmo sui pagliericci in uno stanzone oscuro, illuminato da un camino gigantesco, tutti insieme. Le ombre degli animali, fuori dai vetri, il woof degli orsi all'affacciarsi della radura, i respiri gelati, le coperte avvolte ai corpi, la resina che scoppia nel fuoco: tutto concorrerebbe a farmi scrivere un grande romanzo. E il mattino appresso ripartire, appena albeggia, e stancare la modernità portandosi dietro appena una confezione di Tachipirina, per le emergenze, e nessun telefono, e non sapere come va il mondo, per quel tempo intero. Dovrebbe avere dei vetri spessi, la diligenza, traverso cui guardare altri animali feroci ghignarci contro, e volpi rosse e cinghiali attraversarci il cammino, e ritrovarsi a un certo punto in mezzo al nulla, al buio rotto solo dalla lanterna a cassetta, assediati da rumori di anime bianche che strusciano fiori di spine, e fantasmi dispettosi. E così cercare un nuovo ricovero, un fienile, una casupola abbandonata, e lì svoltare un'altra notte, ancora eccitati di paura. Perché a me la paura ha sempre dato scuse per vivere, ho sempre pensato che se una cosa mi atterrisce, beh, la devo proprio respirare, inalare. Stringerei amicizie, parlerei di libri, parleremmo - io e i compagni d'armi - di racconti spaventosi, che ingigantirebbero le sagome dei mostri dietro agli alberi. E al sicuro nell'abitacolo proveremmo il brivido immortale di tutti gli uomini che hanno inventato l'ignoto e hanno scoperto che era bellissimo viverci dentro, con appena un diaframma - un carro coperto, una casa, una porta - a proteggerli.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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