C'è questa regola triste per cui se a un uomo gli levi la passione della vita, muore. Come spegnere la luce in una stanza, come smettere di raccontarsi. Così Mauro se n'è andato, appena dopo che gli hanno imposto la pensione - obolo terminale che non dà scampo - e in capo a cinquant'anni spesi a vendere giornali. Non era un mestiere, a quelli si sopravvive. Era - per sua ammissione - il senso del levarsi dal letto, e del combattimento. Non li fa fuori una qualche malattia, una distrazione, coloro che reggono questa fortuna: il cancro e i tamponamenti feroci sono solo strumenti. Li ammazza il niente che di colpo si ritrovano addosso, la messa a riposo delle celesti abitudini. Perciò io scrivo forsennatamente: per restare attaccato alla vita, per farle capire che è il mio modo di onorarla. Purtuttavia. Purtuttavia piovono giorni torridi e tristi, sì, quanti ne voglio. E l'ansia si mangia il sonno come un topolino i contorni del giornale. Ma appena posso lancio un sasso davanti a me e cerco di raggiungerlo: un traguardo a portata di occhi, ecco di che parlo. Da ragazzino, con un altro Mauro, con Luca e Gastone, eravamo campioni di bocce. Allo stesso modo ora e da solo - anche se il campo sterrato, davanti all'osteria del lago, a Narni, l'hanno fatto scomparire per far posto al nulla, e il vecchio che vendeva chinotti dev'essere morto da chissà. L'estate rabbiosa che c'è fuori mi rintana dentro, cosa che ha i suoi vantaggi. Ho scoperto Monk, il sassolino che ho lanciato avanti è l'appuntamento con lui: tutti i pomeriggi feriali, alle tre e tre quarti su Crime. Mi ci diverto un mondo. Saluta la gente coi gomiti, perché ha paura dei germi; la prima volta che è salito in aereo ha fatto ammattire le hostess; soffre di vertigini; tocca, camminando, tutti i pali della luce, e li conta. E poi gli hanno ammazzato la moglie. Come a me. La sua l'ha fatta fuori la mafia; la mia, dio. Non c'è una gran differenza. Ciò non toglie che raccontano le sue avventure con leggerezza, come ho fatto io con la mia storiaccia, nei panni di Mirka. E - mentre snocciolo le prugne per la marmellata - guardarlo annaspare e poi con un colpo di genio capire tutto prima dei sani di mente, dei detective cazzuti, mi conforta: anche per quelli come lui e me c'è una qualche titubante speranza.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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