Passa ai contenuti principali

Il poeta del west


Ho voglia di scrivere di lui da un mucchio di tempo, ma per un motivo o per l'altro non l'ho mai fatto. Lui è Charles E. Bolton, agricoltore e cercatore d'oro di origini inglesi - meglio noto col soprannome di Black Bart - e compì tra il 1875 e il 1883 una serie di rapine ai danni delle diligenze che trasportavano i proventi della Wells Fargo, in certi angoli dell'Oregon e della California. Mi ha sempre incuriosito la sua storia, e non capisco perché nessuno - che io sappia - ci ha mai fatto un film. Era un galantuomo e a quanto ho scoperto faceva il farabutto con ritrosia: non derubava i viaggiatori ma solo le cassette della compagnia, e il fucile che spianava in faccia alle vittime - calzando in testa un sacco di farina coi buchi per gli occhi - era scarico. Ma per un gesto su tutti me ne sono infatuato: a ogni colpo lasciava una poesiola scritta di suo pugno dentro il forziere vuoto. Non era Walt Whitman, beninteso: le sue rime erano elementari, la metrica incespicante. Ma l'intuizione mi pare magnifica: seminava stenta bellezza in un mondo selvatico come quello, e in certo senso anticipava la civiltà. Più della ferrovia, più delle fabbriche; e certamente più dei bordelli e delle sale da gioco. Poi lo incastrarono, per colpa di un incauto salto in lavanderia, dove qualcuno riconobbe le sue buone maniere e un fazzoletto con le iniziali. Se la cavò con pochi anni di galera, vista la sua mitezza, e una volta uscito pare che riprese il vecchio vizio, ma non lo beccarono più. Ecco, a me una storia così, se fossi americano, farebbe gola: sarebbe l'architrave di un altro romanzo, il prossimo, magari. La farcirei con tutte le sfide impossibili lanciate agli amici di un tempo nella stanza di passaggio che era la mia camera, negli anni della fanciullezza. Chi estraeva per primo ero sempre io; io il più rapido a dire Bang e l'altro - se stava al gioco - si contorceva e accasciava. Già allora avevo questo destino nella colt: l'avventura di una vita segnata da colpi bassi e lampi d'estasi, e una fame di parole aggraziate in un mondo di assassini.

Commenti

Post popolari in questo blog

Avvento

Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra

Tre circostanze fortunate

Tu adesso chiudi gli occhi che io ti do un bacio. Chiudi gli occhi perché il bacio non devi vederlo arrivare, devi fare in modo che l'attesa sia una fitta dentro al petto, che la mia bocca s'aggrappi alla tua quando non ci contavi più, quando pensi che me ne sono andato e t'ho lasciata là, ingannata e cieca. Mentre aspetti il tempo ti sembrerà differente - il tempo dell'attesa di un bacio sfugge alla gabbia consueta - e se alla fine ti chiedessero di contarlo dovresti fare come i bambini, con le dita, e sarebbe lo stesso un inganno. Non è una questione di età, io ho la mia e tu la tua, non siamo alle prime armi. Ma anche la tenerezza - perché è di questo che stiamo parlando - muove con un tempo tutto strano, asincrono, ed è la stessa di quando avevamo vent'anni - tu più di recente - rinvigorita però dall'autostima, che alla giovinezza non si addice. Poi vorrei tenerti addosso, come in quella canzone di Paoli, stringerti alla mia camicia bianca e dirti che probab

Alcune ragioni contrarie all'infelicità

Perché sei infelice? Perché non riesci a starci dentro, alla felicità, per più di dieci minuti? Io credo che dovresti ragionare su queste domande, così intime e così terribili. Se vuoi ti do una mano, molti dicono che ci somigliamo, sarà più facile per me che per un altro suggerirti una via d'uscita. Sei infelice nonostante tu faccia tutti i giorni quello che ti piace. Pensa se non fosse successo, che avessi quei piccoli talenti che alcuni ti riconoscono: parlare in radio con disinvoltura, scrivere con leggiadria, tenere avvinti venticinque ragazzi con un poeta che per la prima volta non sembra loro inutile. Pensa se non avessi quei piccoli talenti ma fossi divorato dal desiderio di averli, e ogni tua invenzione passasse inosservata, o peggio fosse evitata come la peste. Questa attenzione che ti dedicano, non è già motivo di felicità? Le parole - lusinghiere -  che ti regalano a corredo delle tue, non sono una buona ragione per essere felici? E quando hai viaggiato per l'Italia