La magnificenza della stagione di mezzo ogni volta mi rapisce il cuore, e chiede un riscatto: che io la scriva. Così oggi, che ho salito a mezza via la boscaglia attorno casa e a uno slargo ho visto la primavera, perché gli scrittori vedono le cose in anticipo, è un fardello e un privilegio. Stava arrampicata in cielo, intinta nelle nuvole enfie di fuoco; dispersa nell'aria, tra gli ulivi giovani, al di là di un cancello divelto. Ogni foglia sembrava l'avessero bagnata d'argento, come ai tempi in cui consegnavo a mia madre le palme benedette, dalla messa. E quella contentezza me ne ha slargate altre, lontane, che porterò via con me, quando sarà il tempo. Perché partire da solo non mi va: il viaggio non ha senso in sé - come dicono. Ha senso se certe tenerezze ti accompagnano. Ecco allora Gino che sale su per via Vittorio Emanuele col primo gelato dell'anno - un'altra primavera, scoscesa d'anni, e regale. Ecco i tamburi della festa, e le fiaccole, la resina che scoppia; ecco Rita che ha paura che i cavalli scartino, e mi travolgano. Ecco Silvia, l'amore che mi ha insegnato fu pudico e straziante. Poi, altre volte, osceno e spento, ma lei non c'era più, e non l'ho mai più ritrovata. O forse sì, una sorte di anni dopo, sul treno per Roma: le somigliava ma non c'è giuramento. Ecco il greto del torrente, l'acqua ghiaccia a Luglio, noi che ci buttiamo, la pelle che brucia: quattordici anni, l'età scandalosa. Ecco i ritorni a casa al crepuscolo, sulla corriera, maggio, col suo sapore sulle labbra ancora, le promesse, io che ringraziavo la vita per come era cambiata. Ecco Pietro che sorride, che mi parla come a un uomo, che mi carezza la testa a tradimento, una mattina a colazione. Ecco il dono: la scrittura, la prima volta che me ne invischiai, la dipendenza che mi creò, narciso, da quel giorno. Ecco gli alberghi, l'amore sopra i lavandini, uscire poi all'avvento della sera a cercare un ristorante; mangiare sotto la luna, il mare accanto, invisibile. Ridere. Della morte, del mieloma, della devastazione che sarebbe arrivata. Ecco l'ultima notte di quiete, e non lo sapevamo, il film con Cary Grant, la tumefazione al mattino, la vita che si rovescia. Ecco tutto il conforto dopo, la salvifica avventura degli anni a seguire, questo mio parlare di parole dopo averne scritte tante, il senso di bellezza che mi esplode a farlo. Come una dinamite magnifica che porterò con me. Ovunque e in qualunque tempo io vada.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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