Al contrario: le fotografie sono necessarie. A onta dei mentecatti che ironizzano in Facebook, servono invece a immortalare - etimologicamente - un giorno. Si vede che quegli sventurati non hanno niente da rendere eterno - né una donna mentre ti corteggia, né un ristorante dove si mangia da pascià, né una risacca del Tirreno il 7 aprile - e nessuna vanità da raccontare. Io presempio fotografo tanto, quando viaggio, specie se il viaggio è vicino. Non ho avuto la
forza di fotografare Budapest - dove vidi un mare azzurro e mi dissero
"No messié: è un fiume", e il sole arpeggiarci sopra le dita come su un liquido sitar, e facce lunghe di operai zitti - e lo stupore mi fece così straniero e la meraviglia così poco terrestre da rallentarmi i battiti. Fotografo invece i cortili accanto, le ripe di campagna, i chiostri dai pozzi illucchettati, le edicole votive, del tipo oggi a Macerino, dopo tre quarti d'ora di macchina. Ché tre quarti d'ora di macchina - al netto delle curve assassine, di qualche tratto di mulattiera e dei conati di vomito - sono un pedaggio leggero per la stupefacenza. Io sogno, fantastico, immagino. Che sono le tre azioni più eretiche del cervello umano. Non a caso sorelle: Iddio mai le cancelli. Mi sono innamorato di un'altana cinta da edere - giuro: poche ore fa, - per tetto un viluppo di foglie cuspidi e sotto tavoli senza tovaglia, da occupare alla bella stagione. Ci farei il bettoliere là sopra, almeno fino a settembre; servirei datteri, olive farcite e vino greco, e scriverei - perché a scrivere non rinuncio - sui cartocci oliati che uso per il take away, appena l'ultimo nottambulo rincasa. Ecco dunque a che servono i viaggi brevi: a progettare quelli lunghi, che faccio seduto scomodo davanti a uno schermo. Come adesso. Viaggi fuori porta, come a otto anni, quando con Pietro e Rita rincasavo da Orvieto, o Tivoli, o Farfa, e il sole ci tramontava contro, si opponeva quasi al nostro ritorno, ci suggeriva Dài, restate ancora un po' in giro, e io strastordito m'allungavo sul sedile posteriore della Dyane, e un po' leggevo Asterix, un po' costruivo mondi. Quei viaggi erano promesse di carezze che la memoria mi dà ora, mantiene dopo quarant'anni, sussurrando Non avrai mica creduto che me ne fossi scordata. E sono tutta la tenerezza di cui la mia scrittura è capace, pescando dal serbatoio delle cose magnifiche. Quelle indimenticate. Quelle che non baratterei con nessun trionfo di nessuna specie.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post