Non credo a niente tranne che alla tenerezza. Se uno si salva dalla perversione di bocche spalancate che giurano vero tutto quello che non è, è per via che ha cura di quel sentimento: una faccenda privata che dovremmo far diventare pubblica. Al posto dell'indecente politica, per esempio, che è il suo contrario: la bugia eletta a sistema. Non credo a niente di ciò che mi racconta la politica, da nessuna parte. Non ho altra speranza che quella di sopravviverle. La tenerezza, invece. La tenerezza è un impeto di sincerità, mi bagna all'improvviso come un'oscenità intrattenuta, mi fa sacro, credente. Mi afferra in macchina, talora, mentre guido e parlo a mia figlia di una cosa così bella che mi strazia, come una canzone, la scuola, il volo di febbraio per Londra, il giorno non così lontano in cui lei mi lascerà per vivere la sua vita, e non più la nostra. La tenerezza è la condivisione di un lampo: scocca dentro, da qualche parte tra le costole e come la polvere irrita gli occhi, e piove a tradimento, e affamiglia le persone più dei matrimoni. Può esserci una verità meglio di questa, ma io non la so, non l'ho trovata. C'è così una vita, che è la mia, che è altre dieci vite, tante temo d'averne vissute. E in ognuna la costante - tra le variabili - è stata lei, e mi ha preso alla sprovvista quando ho creduto d'esserne immune – ché per un tempo l'ho giudicata un difetto; e si è riaffacciata il giorno che pensavo di averla persa, giacché non ero più un ragazzo; e mi si è fatta devotamente amica, lasciandomi capire con il tempo largo delle scoperte feroci quanto sappia di me. Mi fa vedere il mondo, la tenerezza, meglio di qualunque filosofia. Mi svela alla gente – quella che abita casa mia e tutta l’altra – e tradisce in certi intimi racconti di bellezza il benvolere degli altri. So cos’è, allora, ma non so definirla, e per questo è ancora più lucente. Ho imprigionato i miei ricordi e tutte le persone che ne sono titolari dentro le parole; per tutti, per anni, ho costruito un recinto, li ho limitati, da infiniti che erano, ho riassunto meglio che ho potuto la nostalgia, ho giurato che se avessi due vite, una ne darei via per tornare indietro con la miriade di cose in memoria già accadute. Ma la tenerezza non riesco: non ho didascalie che la imprigionino. È un mare che scappa dalle mani, un’epifania, è credere agli gnomi, Monna Lisa che sorride, l'euforia di una quasi sbornia, Silvia che arrivava in fretta a scuola, leggere assediati dalle ombre, averti baciata al cinema, un gatto dagli occhi tristi, capire un verso di Montale dopo vent’anni. È una promessa mantenuta. È l’unico sistema credibile per accorciare la distanza tra gli esseri umani.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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