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Leonard Cohen

Per davvero - mi sa -  c’è soltanto un albergo a Venezia. È l’albergo dove chi ho amato ritorna e mi aspetta, seduta nuda a gambe aperte, ed ha pochi volti, e a seconda delle stagioni le labbra che ho baciato, i seni che ho morso. Sta in un angolo scuro e guarda chi va lì a far l’amore e l’uomo che c’è non è mai l’uomo che vorrebbe. Perché io, che viaggio, quell’unico albergo non lo trovo più – ma cento altri. È sperso nella nebbia, affogato nel salmastro umore della città; esiste ma non è vero: gli assomiglia al più qualcun altro d’una parentela storta, inconsistente.
Ho cominciato a cercarlo che ero ragazzo, e studiavo non ricordo più cosa, contro lo schermo dei pomeriggi d’ottobre, cinema che proiettava al cielo  un crepuscolo rosa di nubi gonfie, spettacolo che non voleva saperne di diventare notte. La bellezza, così, s’aggrappava al graticcio della terrazza come un predatore, e mi entrava in casa, e posavo il libro di Epigrafia – giuro che non mi ricordo: ho detto a caso – e incautamente accesi la radio. Era il tempo in cui sognavo di parlarci dentro, tanto non ne potevo più di ascoltarla senza innamorarmene. Sono andato a guardare gli almanacchi e ho ricordato – non scoperto: già lo sapevo; però l’avevo sfuggito – che era l’ottantanove e che Roberto Vecchioni giocò in diretta  una settimana – un’ora al giorno – a parlare del suo disco più scarno. Il giorno che si tratteneva più del dovuto, come un ospite molesto, la sera che spandeva come macchie di unto, erano il mondo perfetto di quelle storie, il palco, lo stadio immenso con un solo spettatore: io. Scoprii in quell’indugiare al nulla – perché ogni parola allineata in grazia con altre è questo, nel mondo degli uomini – la perversione della malinconia, e me la feci amante, così devota che ancora mi segue, ovunque io cammini. Ogni albergo è Venezia e Venezia è sempre quella canzone, una cosa così in apparenza trascurata, senza melodia, elementare, epperò – dannazione – malignamente perfetta, tanto che ogni volta che mi dicono Ah, cazzo, Luci a san Siro, oppure Robinson, rispondo No, quell'altra. È un problema di selezione naturale, spiego. E colloco quella canzone lassù, dove stanno i venti, e i geni, e i pederasti dell’Olimpo - se mai ci abitano ancora. Io la ascoltai una volta, e andai a comprare il vinile, e fu come il percorso dell'eucarestia per chi va a messa. C’è tutto quello in cui crede un uomo come me, dentro quei tre minuti, quella centinaia di parole, e tutto quello che teme di aver abitato: i ricordi, la tenerezza, gli hotel colle camere rifatte da poco, le carezze scivolate via per sempre, la gelosia, i tradimenti architettati, il tempo che non ritorna mai eppure vorresti lo facesse, anche una volta sola, anche solo per dirti No scusa, davvero: non posso fermarmi. Le cose belle non sono belle in sé ma magnifiche in una stanza, circoscritte, tenute prigioniere per paura che altri se ne impossessino. Così ho fatto: quella canzone è solo mia, non esiste per nessuno di voi, come l’albergo di Rialto, il cortile dirimpetto, e so che fin quando non lo trovo - pur continuando a viaggiare estenuato - l’avrò tenuto nascosto per bene.


La canzone è questa:
https://www.youtube.com/watch?v=pa4mTtiy4Lw

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