Piovono giorni a centinaia, grossolanamente uguali e impercettibilmente diversi, e in ognuno trovo uno spiraglio di passato e una curiosità nuova - un romanzo da portare a casa e incamminare nel covo della lettura: l'angolo di sala che mi spetta, la mia poltrona traslocata e la lampada a stelo, che sono tutto il mondo che esiste dopo cena. Vivo così come un elastico, e il presente è sempre un rammento smarrito o un progettino a breve termine, cosa che mi procura il sospetto ansioso di chi non è fatto per l'adesso. Già so che questi anni in cui vado ad aspettare mia figlia al terminal bus diverranno attimi che mi spaccheranno il cuore quando sarà via: universitaria, o sposata, e unica titolare della sua vita. Scenderò lo stesso: da questo condominio imboschito alla piazza della festa, del mercato del venerdì; arriverà il pullman e lei non ci sarà: sarà a Londra, Nuova York, a pretendere da altre persone che non sarò io la constatazione rispettosa della sua esistenza. Ecco l'elastico. Per via che questo presente mi tende anche indietro, mentre succede, ad altre epoche, cinicamente prossime o perdutamente lontane; la stessa scena dell'attesa di Susanna, pochi minuti all'una di un giovedì di fine ottobre, il parcheggio della Guglielmo Marconi, e quelle parole, pronunciate al telefono da oncoematologia, ma in realtà da un cerchio scabro dell'inferno: Alessandra se ne sta andando. Mi ci sono graffiato la pelle, ma portavo la giacca: non l'ha mai visto nessuno. O invece mi tende allo spasimo e aggancia - come ci fosse un chiodo - a una parete dell'infanzia; lei, l'infanzia, di questi tempi fibrillava, per una felicità che il mondo non mi ha più mostrato. Non con quella limpidezza almeno, che mi faceva scordare la morte; che non me l'aveva ancora fatta conoscere, perfino. Io non ricordo quando ho capito di dover morire: se nel '73 o un soffio dopo. Ma pur quando l'ho capito era un futuro talmente nascosto e un concetto così incomprensibile che non me ne feci avvilire. Dopo sì, ma non mentre scendevo al sottoscala e l'albero di Gino crepitava muto le luci, e dal muschio secco scappavano le bestioline, coleotteri apocrifi cacciati in malo modo dal presepio. Lì ho creduto nell'immortalità per il semplice fatto che pensavo quelle sciocchezze vivessero per sempre. Oggi - che sia benedetto quest'oggi che mi trova ancora vivo - i posti di tutta questa mia vita piena, sopra cui sono precipitati sentimenti che mi hanno sommerso e salvato, sono intatti ma - vi assicuro - sfiniti, sfiancati. Ho succhiato loro tutta l'energia che avevano e ne ho scritto. Forse li ho inariditi. Non l'ho fatto apposta, giuro. È stata legittima difesa. Ora quando li frequento chiedo loro una voce che ho già sottratto, che è la mia, e mi avvilisco del furto che ho commesso, e li maledico per tutte le volte che - dissennati - mi hanno assecondato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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