Comunque ierimattina la porta della radio - una porta interna che da nell'archivio dei vinili, colorata di blu - si è aperta due volte, e diligente ha fatto tutto il suo percorso d'arco sui cardini, come un manrovescio lento. La prima volta era socchiuso l'ingresso e ho creduto a una corrente d'aria. La seconda non c'erano spifferi: per me era il mio caro spettro. Mi ha benedetto col suo sorriso aperto, - o me lo sono immaginato - ha certificato la mia nuova vita e dopo sono sceso a comprare le crocchette per Struscio più rinfrancato - per strada una tipa in bici mi stava per mettere sotto, ha frenato, mi ha guardato e detto Vada vada, che se la investo poi non sento più la sua bella voce al mattino. Ogni tanto mi serve che tu mi sfantasmi attorno, è una rassicurazione. Come quando m'azzardo a ritirare l'emocromo e va tutto bene, i globuli bianchi non han dato di matto e mi allegro di avere diritto a un altro pezzo d'autunno. Struscio è contenta, nonostante il nome maschile che le abbiamo frettolosamente affibbiato quando strofinava tutti i mobili in trasloco con la sua groppa, e le nostre gambe. Le ho portato dei libri - certi racconti di Carver e un atlante poetico di Rumiz sui viaggi in Europa - che ha gradito per venti secondi, pattinandoci sopra alla maniera di un lettore frugale. In biblioteca stavano orfani e distanti; afoni perfino. Perché di certi romanzi si sente la voce fin dalle scale, mentre t'arrampichi, e di altri che stanno a pigiarsi di schiene, a scambiarsi acari salterini, niente, nessuna presenza. È perché nessuno li chiama, io temo, e loro non sanno rispondere a un diavolo che se li porti. La signora antipatica - avanti a me nella fila - ha detto di essere in lista per la Mazzantini - pensa che attesa eccitante - e ha chiesto a che punto fosse la catena dei prestiti, ansiosa - ansiosissima - di leggere a sbafo. Meno male che tutta questa roba che succede è roba da scrivere, adatta per chi - come me - ama divagare e alloggerebbe solo in alberghi dove fosse gradito farlo, tra le sedie di paglia, i tavolini rotondi, le macchine Bialetti che sbuffano caffé cubano e le donne dai vestiti antichi. Aprirei io, un albergo così; e ci inviterei tutti gli amici tristi e scontenti, e divagando rifioriremmo. Allora sì che il nostro mestiere di raccontatori avrebbe un senso. Al contrario, siamo tutti malincomici, che fanno ridere e dire - a tanti - Fortuna non siam come loro a furia di mostrare la luna che abbiamo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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