
Le bucce dei mandaranci Gino le buttava nel fuoco, e morendo sfumacchiavano e odoravano, come innocenti al rogo; Gastone scappava al piano, in un'ala gelata di casa, e Bach arrivava lassù, nelle pause di parole. Rita e Gina e Mara spicciavano; rimaneva - collosa - una scheggia di torrone, il paniere di molliche, e a quel punto qualcuno versava il caffè: tutti bevevano, io annusavo. Lo compravano alla drogheria dove avrei lavorato gratis - garzone da romanzo - per quegli odori di spezie che mi facevano tenera la vita, e l'aspetto di bottega di Natale anche d'estate. C'è ancora: scrigno per gaudenti incastrato al vescovado, sfregio nell'ipocrisia. Mi ci intossicavo di carrarmato perugina, lontano dagli occhi di tutti. Oggi ci passo davanti col palato nostalgico, e di tanto in tanto entro. E talvolta sosto ancora, alla tavola che si è apparecchiata ai miei anni moderni, e racconto a chi c'è di quelle volte. Non c'erano, c'erano tutte altre persone, mi capiscono e non mi capiscono. Mi sopportano, sorridono, cambiano argomento. Io del resto ho indugiato così tanto a quei dopopranzo che ne trattengo - avido - il sospetto, il divertimento. Trattenersi e in-trattenersi sono due altri fratelli che si detestano o amano, a seconda delle circostanze. Stavo perché mi rasserenava, ché ero affetto da malinconia già allora - ma intimamente, senza sbrachi. E tutti quelli che arrivavano in ritardo erano un tepore rinnovato, un aggiungere coperti, uno scappottarsi, uno snevarsi. Costruivano - benedetti - il senso intero della mia scrittura di oggi senza averne il minimo sospetto.
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