Ah che meraviglia un'ora intera di nessun impegno, che tutte le obiezioni alla felicità ricominciano alle dieci. In questa parentesi c'entra solo ciò che mi piace, non ci sono incognite, ics da identificare, perché è il pensiero di far le cose che opprime, non tanto farle. Questa è la felicità: snuvolamento. E accontentarsi di un salto a Narni, e vedere i miei come non li ho mai visti: sereni, ospitali. Tanto che perfino un viaggio a Viterbo con un orecchio sanguinante e il sospetto di un timpano perforato diventa - incoscientemente - una gita allegra; e al ritorno prendere dieci minuti di sole insieme - che è come se beve uno ma si dissetano entrambi, se dorme lei ma mi riposo anch'io, per via che ci lega un sentimento di mutuo soccorso, al netto del sollievo per la sordità scampata. Accontentarsi. Di quello che ho e farmelo bastare, della felicità imperfetta, incrinata a ogni sasso che arriva ai vetri, e capire che senza imperfezione e paura lei non esisterebbe, perché non saprei distinguerla, non potrei esserle grato. Il mio record personale di felicità è quello: la leggerezza appena ebbra, come di uno che ha bevuto solo un bicchiere di più. Non lo so se ne esiste una forma più rotonda: non l'ho mai provata. Quando sparecchio gli affanni, rinasco. E allora posso dire di conoscerla. Una sua forma light, quantomeno, una succursale. Nel cui piatto abbisogna un condimento essenziale: la malinconia; ricordarsi di com'ero fatto - che cappotto avevo, che mani intirizzite - in quella medesima svolta della strada dove sto adesso, che ci ricammino. Che grande bugia quando dicono che essere giovani è essere felici. Io lo sono stato a lampi assai rari, e senza l'esperienza per apprezzarne il rischiaro. Più invecchi più ti avvicini alla morte: oh, certo; ma più invecchi più vai via dalla giovinezza, che è un campo minato di stranite insoddisfazioni. E allora io credo d'essere ora più pieno, levigato, attento ai dettagli della nostalgia, e alle pagliuzze d'oro che mi fa trovare nei posti dove ho vissuto. Ho già scritto che mi pare d'essere Cartafilo, e come lui cammino per dare un senso a tutto quello che è successo, perché camminando ritrovo, riscoperchio, rinnovo, rievoco. Sono tutti posti, quelli dove vado, che conservano brandellini di me, uno spolverìo, un'eco appena percettibile, come i suoni del dottore ieri in cuffia, per capire se ci sentivo o no. Io lo so che parlo sempre delle stesse cose, ma se cambiassi argomento sarei insincero. Perché mi importa di poco, oltre che di quel che scrivo; e di tutto quel che mi importa, scrivo. E se allora parlo della nostalgia che a volte mi smembra - ma così dolcemente da riassemblarmi subito - è perché succede. Spero apprezziate di questo piccolo scrittore la mancanza di camuffamenti. E possiate perdonarlo se finalmente, accontentandosi di quel che ha e di quel che non ha, si definisce felice.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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