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L'albero cavo

Per cui ricammino le stesse strade - dell'infanzia dico - e me le vado a cercare col lanternino, per capire se ci faccio o ci sono, a essere così scervellato. Così fradicio di ricordi come fossero pioggia, e così disarmato, quando mi assalgono dai posti dove ho vissuto in bianco e nero, a riguardarmi  dai film di Gastone, che non trovo, e non so in quale delle tante case li ho seminati. Ieri avevo questo atteggiamento qua: tenero. Il pomeriggio mite, un'ora larga, capiente di quel che volevo metterci: qualsiasi cosa. E qualsiasi cosa per come la vedo io ha a che fare con la memoria. Parcheggio davanti la casa che avrei sempre voluto vedere dentro, come una donna quando non ne hai ancora vista intima nessuna, e che ieri aveva scritto Vendesi sulla porta, e per un minuto - sapete quando prende quel dissennato lampo di incoscienza che faresti qualunque enormità? - volevo telefonare, bussare, chiedere quanto vogliono. Lì nei dintorni - san Girolamo, la discesina sopra la Valletta, e poi il giardinuccio smunto dirimpetto a Battistelli - ci ha camminato Gino con la camicia di fuori d'estate e il berretto per tener tiepida la pelata d'inverno - un andirivieni che neanche Cartafilo, a portare buste bianche della spesa a Edda, pesanti di roast-beef, coniglio disossato, cappelletti a Natale, semifreddi d'agosto. Sabato mancavano un sacco di minuti alla partita. Ora vado a guardare la Lazio da Pietro, dopo che per anni è sceso lui da me: è una scusa per rivedere lui e Rita, per tornare a casa. Poi se finisce tre a zero, come ieri, tanto meglio. Sulla ripetta sopra lo stadio avanzi del mercato: mezza anguria, un melone giallo infradicito, fiori morti. Un tappeto decomposto di dopofesta. E la casa austera di Edda, dove uno s'immagina abitino fantasmi, che ormai vedo solo da fuori, perché dentro è di altri, e io non posso entrare. A un certo punto, sotto la curva dell'ospedale dove c'era scritto Evitate rumori inutili, grazie perchè una volta i cartelli stradali erano più cortesi, mi ha preso la domenica. Mi ha proprio posseduto, una specie di dolce violenza sessuale: e siccome era sabato, la conferma di quanto viva in anticipo. O a guardar meglio, in ritardo. Di una quarantina d'anni. C'era il crepuscolo, nei miei occhi di memoria, l'estate divampata al plotone di cicale chiassose, e Gina e ancora Gino che uscivano dalla casa lugubre - li ho visti, io credo si sposarono quando seppero di chiamarsi uguale - e tornavano carichi di avanzi alla loro. E assieme Mara. E ancora Rita, e io piccoletto. Non disprezzerei una vita regolare come quella, a poter scegliere. La domenica da Edda, dalle 3 alle 8 - Tutto il calcio e poi Novantesimo minuto. La Juventus. L'estate con le moto rombanti sotto; anni fa ne scrissi, come per disperazione, in una poesia che sconfessai subito, perché ogni cosa che incide la carne non devi dire che è vera. Ai giardini dell'ospedale sono arrivato a piedi. Mi pare che certe voci ancora rimpollino, hanno paura ad andar via, a lasciare afono il tronco cavo dell'albero dove ci rifugiavamo se pioveva, e dove feci uno scherzo a mia madre: ero sparito, pensava; la feci fibrillare. Certi compagni li ho persi di vista ben prima che andassero via per sempre. Adesso che per sempre è successo, mi spiace di non poterli più casualmente rincontrare. Magari parlano con Gino, e Gina, e Mara, e ogni tanto buttano un occhio a questa storia triste e gaia che ancora scrivo col piglio del sopravvissuto.













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