Chissà a chi parla l'orologio a muro quando muove i secondi col ticchettìo perverso in una casa vuota. Sessanta passetti al minuto, tremilaseicento ogni ora, in una casa morta, parole a nessuno, il pianoterra più fresco - quello di sopra, dove stanno le camere, un rovo d'aria incendiata. Sono le sillabe del tempo che cammina, quei tocchi; basta cambiare una lettera e diventano tacchi, come quelli sbattuti dal passo dell'oca, e se arrivi e spalanchi le imposte e appena si spegne il rumore che fanno - se non le trattieni - ti mettono addosso la stessa tristezza. Anche noi siamo orologi - pensavo - e facciamo cose a nessuno, parliamo al vuoto, certe volte, imperterriti a perseverare passioni insensate. L'orologio in campagna batte il tempo a prescindere; per tutto l'inverno ha tenuto il conto fino a questa vasca di sudore che non capisco come la preferiate, lo ha conservato, ha mantenuto l'andatura per servirci l'ora appena ci fossimo degnati di tornare. E ritornare ogni volta è una festa - col cane orfano che pure ha padroni, ma se ne infischiano, e sarebbe per lui meglio esser randagio - che gira attorno e sfamiamo. E ripartire ogni volta è una malinconia, perché lì si respira, si legge, si fa l'amore, la rete non l'hanno inventata, appena è stagione si va a mirtilli e si torna graffiati, e alla sera si beve alla nostra e al tramonto, coi piedi sulle sedie di plastica, e si mangiano pezzi di frutta impastati al gelato, e poi si ridono grasse risate e si rifà l'amore. Eppure certe volte per rimandare il ritorno apro i cassetti, e trovo. I pezzi del passato sono schegge che ti arrivano addosso come da una bomba che scoppia in un campo. Ieri: una cartellina marrone, e non avevo idea di quale sciocca memoria ci avessi nascosto. Lettere d'amore, parole compromettenti, rese di libri, la polemica con Giuliano Montaldo. No: roba più urticante. Riservatissima, indicibile, indifendibile, che credevo di aver triturato, come le missive segrete nei film di spionaggio. Invece no. Stavano là dentro in attesa di essere dissepolte, quelle tenerezze. I romanzi dei miei dieci anni, il tema dell'esame di quinta elementare, col timbro della scuola di Sant'Anna. Sono morto. Non lo sapevo che erano lì, li avevo messi dentro una scarpiera rossa e poi l'ho dimenticato. E tra quei pensieri zoppicantissimi e acerbi e i rimbrotti in rosso della maestra - Non vuoi proprio scrivere meglio? - ho sperato con tutto il cuore che suor Eleonora si riferisse alla calligrafia, e non alla sostanza.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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