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Nostalgia

Quando ho tempo mi prende nostalgia, come s'accordassero per arrivare insieme, l'uno sposa l'altra e io a fare da officiante. Così adesso, che apro libri a caso, li spolvero, riordino, e dentro ci trovo certi petali secchi di quando avevo fidanzate adolescenti, di quando prendemmo il diploma e rincontrarvi ormai - stamattina, Laura, in fila alle poste - è ancora tenero, di quando mia madre mi spostava per Narni e per chiese il venerdì santo a guardare i sepolcri, ma che fossero dispari. Non ho mai capito perché. Oppure mi afferra la mia indole girovaga e invita al viaggio, quello che non conta il posto - purché ci sia il mare -  ma l'albergo, la stanza, la colazione a buffet, la luce che entra in un certo modo dalla porta finestra, e se si vede Bologna come una delle ultime volte, pure se non c'è il mare va bene lo stesso. Io ci vivrei in albergo, me ne innamoro, delle camere anonime, che sono di nessuno e di tutti; m'incapriccio dei cioccolatini sul cuscino, della tv arrampicata, delle lenzuola raspose, della moquette, dell'avviso antincendio dietro la porta, in inglese francese e tedesco. Ci sosto, faccio la doccia, pulisco bene il water con la carta igienica come se le inservienti non l'avessero già fatto: è una fissa, che non lo so? Apro il frigo bar e non prendo mai niente perché una volta mio padre in Sicilia mi disse Sei matto? Le arachidi costano un occhio della testa. Imprinting del cavolo. Poi esco con le chiavi pesanti in tasca, e il portachiavi col numero che sembra uno di quei dischi che gli aborigeni si infilano nelle labbra, o la targa di un impresario di funerali. Non si può fare, lo so che non si può fare ma a me di lasciarla alla reception non va. E quando torno e entro in camera sniffo l'odore di quella stanza che è l'odore della gente che c'è soggiornata dal 1980. Sta dentro la mia testa quell'odore, so anche questo, ma mi dà di che scrivere l'idea che quel che annuso sia la somma degli odori dei viaggiatori, degli amanti che hanno fatto l'amore tra le stesse mie lenzuola, degli sposi in viaggio di nozze che lui l'ha convinta a sedersi sul lavandino, aprire le gambe e poi l'ha presa guardandole la schiena flettersi nello specchio. Il limite della sopportazione è al mattino, quando vado via. Lo faccio a tappe, come il giro d'Italia. Scendo a far colazione nella sala ristorante; prendo il cappuccino due volte, poi tre cornetti e infine un caffé e una fetta di crostata. In vacanza mangio come un lupo. Leggo i giornali nella hall: non è ancora tempo di risalire. Infine, sospirando, torno in camera, mi lavo i denti lentamente, ci passo il filo, faccio la valigia. Apro l'armadio di compensato, ripongo la coperta che ho preso a mezzanotte: mi si erano gelati i piedi. E alla fine vado via per forza, devono rigovernare, e mi spiace. Ogni volta so che è un addio per sempre, non tornerò mai più là dentro: una cosa che fa un tantino spavento. Come sapere che una persona che conosci è morta, e capire che l'ultima volta che l'hai vista era un commiato. Lascio le camere d'albergo come non ho lasciato neanche le persone che ho amato, quando è successo. Non perché ami di più le cose che le persone. Al contrario: proprio perché ho amato le persone che le camere d'albergo passeggere mi rievocano, come in dispettosa metafora.

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