Io scrivo per me, vi ho ingannati - teneramente però - perché scrivere mi spensiera ed l'unico antidoto alla malinconia di un lavoro che finisce. Oggi ne è finito un altro - il quinto laboratorio di scrittura, e dire che avevamo cominciato per scherzo - e seppur siamo già all'opera per il sesto qualche nostalgia appena nata mi trattiene là. Là è Narni, le sale di Palazzo Eroli, dove, mentre racconto e mi diverto da morire e spiego cose belle a chi ha la bontà di ascoltarmi, passano i visitatori del Ghirlandaio e della mummia, della zanna di mammut e della sala del camino. Troppo ganzo far cultura e trarne di che comprar la spesa, troppo. Ammetto che me ne sono accorto un po' in ritardo, che si poteva fare: devo recuperare il tempo perduto. Per questo ci dò dentro. Ho il contachilometri dei ricordi e brucio tutti i limiti di velocità, che se mi decurtassero punti come sulla patente perderei tutta la mia memoria. Ho il sospetto tuttavia che si mettano d'accordo tra loro e facciano a turno per affacciarmisi dentro - i ricordi - ma sono spergiuri, non stanno ai patti, e così si calpestano come gente all'uscita di un cinema che brucia. Nessuno si fa male, però: sono indistruttibili. Oggi presempio mentre rincasavo che era ancora giorno e dopo esserti stato in grembo - come ogni volta: gioiosamente - a te che ti amo, mi ha soprassalita la voglia di tornare appunto a Narni, da dove ero arrivato passata l'una, per rivedere quelle stanze senza le persone che c'erano state. È una patologia, mi rendo conto, è tutta letteratura, tipo quella che canterò domenica prossima - americana stavolta - una malattia cronica per cui non c'è cura, eccetto che assecondarla. Mi tenta riandare nei posti dove sono stato bene - è una vita che lo faccio - ma quando non c'è più nessuno, e oggi l'avrei fatto per ascoltare il respiro trattenuto di quelle camere pudiche, il bisbiglìo delle tende, lo scrocchio dei tarli nelle porte, spettatori non paganti delle mie raccomandazioni narrative. C'è silenzio dopo che c'è stato rumore nei posti prima abitati, divertiti, e poi lasciati deserti. C'è il tempo sospeso che cade come un sipario sulla mia infantile immaginazione. Io le dò retta e faccio male, a questa perversione, però mi dà da vivere più di una cena, di una lezione a scuola. E finché sono così stupido, materiale da scrivere ce ne sarà a camionate.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post