Passa ai contenuti principali

Trasloco

Devo portare i miei libri da qui a là - dove per là si intende la nuova magnifica casa che è un sogno compiuto - e per farlo mi serve un metodo che mi faciliti la selezione. Tutti non c'entrano, devo fare una scelta: alcuni rimarranno dove sono, altri li regalerò. Ci penso da qualche giorno e alla fine ho deciso; era semplice, in fondo. La scelta privilegia per primi quei libri che mi hanno cambiato la vita, anche impercettibilmente, quei libri che dopo averli letti han trasformato la realtà intorno. Vado a memoria. Precisando che oggi parlo solo di romanzi, i più svelti a cambiar casa saranno loro. Cominciamo? Il primo, per forza e per amore, è "La volpe e le camelie" di Silone. L'ho letto in quarta ginnasio e fu un'epifania, il mio esordio nel romanzo adulto, il primo che nessuno mi costrinse a leggere ma che scoprii per volontà, e leggere per volontà è quel che ho cercato sempre di fare. Il secondo romanzo che traslocherò è "Il barone rampante" - Calvino - letto invece dopo il diploma, in Sicilia, in un bungalow torrido, in una vacanza senza acqua potabile. La scoperta della libertà, divenne. Capii che era possibile che affermassi la mia volontà contro quella a volte ottusa di altri, della famiglia. Il terzo libro è "Chiedi alla polvere" di John Fante, letto da grande, dieci o dodici anni fa, accanto a mia figlia piccola che dormiva in culla. Una meraviglia di storia, il romanzo più bello che conosco sulla disgrazia di chi è divorato dalla febbre di scrivere. Il quarto libro è "Padri e figli" di Turgenev: anarchia, nichilismo, Bazarov. Quando l'ho letto, a quindici anni o forse sedici, d'inverno sul divano di Narni, sotto una serie di coperte come in Russia, come fossi stato laggiù, me ne sentii protagonista. Il quinto è "Teleny", romanzo anonimo, per alcuni opera di Oscar Wilde: raffinato erotico commovente racconto di amore omosessuale. Ma è un caso. Il più bel libro d'amore che ho letto - questo d'estate, prestatomi, nella stanza meno calda di casa, dopo pranzo sempre alla stessa ora, dalle due alle tre perché un libro bello ti fa essergli puntuale tutte le volte come la prima che l'hai aperto -  o comunque il libro dove meglio l'amore è narrato nella sua essenza di patimento e gioia. Il sesto libro è "Stagioni diverse" di King: la sua scrittura midiciale ed esatta qui ricostruisce magistralmente epoche, linguaggi, prospettive. Letto il primo anno che insegnavo, il 2000, trasmesso come un fuoco ai miei ragazzi di allora, oggi padri e madri di famiglia. Il settimo è "Oceano mare" di Baricco: affabulazione senza contenuto, scrittura sublime, ironica, avventurosa. Inutile, sperimentale e indispensabile, se la scrittura è superfluità. Mi ci persi in appena due giorni, ininterrottamente, tra il penultimo e l'ultimo esame d'università, tra Antichità medievali e Glottologia.  L'ottavo libro è "Il giovane Holden", Salinger - divorato tardivamente non più di sette anni fa, snobbato per anni e colpevolmente, per esterofobia improvvisa, forse, in un periodo di letture tutte italiane - un barone rampante contemporaneo. Si fa beffe dell'ipocrisia borghese come qualunque persona retta dovrebbe e nello stesso tempo della scrittura dei padri, stretto com'è tra la grande narrazione e il minimalismo della prosa, e i ragionamenti interrotti. Irrisolto, come la vita. Il nono romanzo è "L'isola del tesoro", Stevenson, tre volte cominciato e finito, in tre epoche differenti, e l'ultima volta letto e trasmesso in radio, a puntate. Non sto a spiegare perché: capolavoro immortale. L'ultimo dei primi a far le valigie sarà un trio, come rilegato insieme, scolastico e ineludibile: "La coscienza di Zeno", "Il fu Mattia Pascal", "I promessi sposi". Letti a morsi, letti interi, riletti, rinnegati, raccomandati a piena voce. L'immortalità è là dentro, così spero me ne cada un po' addosso, uno spolverìo, quando scrivo. Senza averli letti non ha senso definirsi lettori. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...