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Nuotando a dorso

Ho sostato ieri nella casa di Narni, pochi minuti, ero solo e forse è la prima volta dopo anni che incidentalmente accade, ma non ne sono sicuro perché dopo anni perdi il conto delle cose che si ripetono a distanza di tanto e a contare - quando risuccedono - ricominci per forza sempre da uno, come calcolo di soldi spicci che non tieni a mente. Le stanze avevano il vezzo antico del ricordo, lo incoraggiavano, e io non mi lascio pregare, se c'è da rievocare. Accanto a quel termosifone, presempio, ho scalato notti insonni a preparare esami - Antichità medievali, Glottologia, Letterature comparate, - quello della cucina, dietro la porta a vetri, che mia madre un giorno scivolando spaccò con una testata da ariete: non si fece un graffio, ogni volta che la racconta le dò della miracolata. Proprio la cucina medesima dove sul tavolo studiavo invece in braccio al pomeriggio, una radio a transistor tarata su Subasio, e ragionavo "Mi piacerebbe fare lo speaker, ma non ne ho la faccia tosta e la parlantina, pensa mio padre". E ho risentito il ricamo della chiave nel portone sulla Flaminia - l'altro, quello di via della Pigna, troppe stanze lontano da me, che frequentavo più volentieri la parte nuova di casa, - un grattìo tra legno e metallo prima che papà al buio riuscisse a infilarla. Mia madre che mi diceva "Affacciati, vedi se arriva che butto gli spaghetti" ma a me mi distraeva una lambretta, una ragazza che passava guardando in su, un coriandolo, e papà chiusa la tabaccheria sfilava sotto e non lo vedevo, e mia madre se lo trovava davanti e "Fortuna che ti avevo detto di avvertirmi". O ancora nuotando a dorso - e dunque andando indietro con l'intenzione di andare avanti - ho ritrovato i pomeriggi pachiderma in cui dopo greco e latino e il viaggio in autobus svenivo sul divano, tutto storto, con la testa infilata tra i cuscini: la genesi dei miei pisolini pomeridiani. O zio Gastone che riveniva da Roma - riveniva, non tornava, perché ogni sera era uguale l'attesa mentre il ritorno è uno solo - e dopo che aveva suonato Bach mi leggeva Tex Willer facendo le voci, e gli spari, e il rumore dei cazzotti, e il pernacchio delle trombe dei soldati, e il galoppìo dei cavalli; o la rondine che precipitò in camera mia, tra il magnetofono e la parete, e per liberarla dovemmo prenderla per le ali e mentre il cuore le batteva a mille slanciarla dalla finestra al cielo.
Anch'io a un certo punto sono volato via. E ho preso certe strade dove c'erano certi sassi appuntiti sotto le scarpe e bottiglie di vetro rotte incollate al guard-rail. E mi sono tagliato, mutilato, e credevo che sarei morto a forza di sanguinare. Ma sono grato al patimento perché mi ha migliorato: da uomo fioco mi ha fatto tornare ragazzo vorace, e mi fa festeggiare compleanni al contrario, a ogni dieci gennaio ringiovanisco e ho più fame di vita. E sono volato via per ritornare adesso - nuotando all'indietro con l'ostinazione ad andare avanti trascinando il passato legato a un piede, come una zattera - senza peso e nostalgia, solo con una sacca di memorie che è ricchezza da cassaforte. A ricordo segue ricordo, a sapore di gazzosa Bisaccioni - la imbottigliava mio zio a san Girolamo, mia cugina ci inzuppava il pane: così facevamo talora merenda ,- a luce che tagliava la sala della musica alle tre di pomeriggio, a voce incapita da un'altra stanza, a una seconda voce da una terza stanza - non la mia, non la sua -  che le chiedeva di ripetere le parole, segue meraviglia. E il piccolo dono di scriverne fa di me un tenero essere felice.






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