E così vi giuro benedette le pause, le mattine lunghe cui arrivo dopo un sonno largo e profondo come un lago, quelle che non ho da uscire e resto in tuta a scrivere e controllare l'oblò della lavatrice, ogni tanto, che non ceda perché ho ingolfato il cestello e inondi il terrazzo. Benedetta la mia vita che è un orto che curo ogni giorno, zappettando e costruendo canaletti di scolo per le cose brutte, da licenziare. Se mando una mail è un seme che potrebbe portare un ingaggio; se mi piace l'inizio di una storia c'è il caso che sia la testa del nuovo romanzo. Non sprechiamo niente, da queste parti: ancora per poco via Patrizi, Terni. L'indirizzo muterà. Nello stesso tempo che il diaframma di foschia ci mette ad alzarsi sopra la città e a lasciare agio al sole stento, mi organizzo la giornata, cioé la vita, perché la vita non la concepisco se non come un corteo di giorni da far fruttare. Ecco l'orto. Seminiamo, seminiamo, seminiamo. Non c'è molto altro nella vita se non rallegrare gli altri, alleggerirgli qualche peso, far sorridere più facce che si può. Poi sì c'è tanto cinema, tanto amore sacralmente osceno, tanti libri da leggere che mi metto paura a pensarci e qualcheduno da scrivere. Ma tutto questo bendiddio non casca dal cielo nemmeno se preghiamo fino a far sanguinare le gengive, per cui sono abbastanza sicuro che bisogna metterci del nostro. Epperò ho imparato perfino io che nessun gusto c'è se non lo condividi. Scrivere e incitare a farlo cura tante cose, le mie scempiaggini per prime e me stesso, che istigo a questa follia. Questo so fare, questo imparo a fare facendolo, grazie a voi. Perché la morte è un'ingiustizia, e ho sempre pensato che si poteva pareggiare il peccato originale con un'ammenda, un condono, come per una veranda fuori piano regolatore. E dopo vivere per sempre e perfezionare ogni secolo la felicità. Un compromesso, parlo di questo; ma dio non ci sente da quell'orecchio. E così il piacere della vita lo scriviamo - e se vi va di farlo sul serio, proviamo a farlo insieme - mettendolo al riparo dalla dimenticanza, come in quell'orto un albero giovane dalla tempesta.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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