Io che arrotolo pensieri astrusi non mi faccio mancare la curiosità del giorno in cui morirò, il giorno dell'anno, dico, più che l'anno stesso, perché ho sempre messo più attenzione ai dettagli che al quadro d'insieme. E mi avventuro a immaginarlo senza paura: visto che non posso farci niente è sciocco temerlo. Non mi dispiacerebbe che fosse d'inverno: d'inverno sono nato d'inverno comincerei il viaggio di ritorno. E non sarebbe male che succedesse nello stesso giorno in cui, in un anno lontano, ho fatto qualcosa di memorabile: baciato, amato, sofferto davvero per la prima volta. Come scruto senza chiromanzia il futuro, allo stesso modo - ma in maniera più attendibile - rintraccio il passato affidandomi alla memoria, ai miei sensi ancora ragazzini, perché nella testa ho un elastico che s'allunga e s'accorcia. Ho vissuto quarantasette Natali; di quattro o cinque non ho assolutamente coscienza, ma quelli tra il 1972 e il 1977 sono stati colpevoli della mia tenerezza, di questa stupida inclinazione a ripiegarmi su me stesso, che poi è la causa prima della scrittura. Io quando scrivo immagino poco, rivesto a festa il passato, invece, lo camuffo a tal punto che neanche chi l'ha spartito con me lo riconosce più. E così ho materiale per altri libri, e sembra sempre che racconti faccende di estranei ma al contrario sono tutte mie, solo doppiate da voci più belle. Ho urgenza di scrivere dei Natali antichi perché ogni volta che passa il tempo - e pare che succeda ogni istante - si sgretola un po' di memoria, come intonaco da un muro secco: prima che crolli devo salvarne più pezzi che posso. Procedo a campione, tirando su a galla presempio le mattine dopo la festa, che la casa gelava e aveva un odore di cena ancora sospeso, di brace, e già nelle orecchie il clamore della festa rinnovata, i passi di mio nonno sulle scale, i tegami di cose, i soletti di dolci, le frasi d'augurio, la carta strappata dai regali ancora per terra. Mi sentivo in ritardo a farmi trovare in cucina a far colazione col latte e il pandoro, in pigiama, mentre tutti appoggiavano sul tavolo le buste della spesa, il pollo nudo da arrostire, che mi faceva senso e toglieva appetito. La festa durava venti giorni - s'allungava fino al mio compleanno - e nessuno si annoiava; oggi dura poche ore, e già alla sera diciamo Fortuna che un altro Natale è passato. Ma forse è solo colpa mia, che sono cresciuto senza chiedere il permesso a nessuno.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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