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Insonnia

Quando nasciamo facciamo presto a impratichirci del mondo, ne impariamo l'alfabeto in fretta, così che se dico a mia figlia Vado a prendere una cosa in macchina lei capisce al volo perché sa il significato di andare, prendere, cosa e macchina. Non so se gliel'ho insegnato io, se gliel'ha suggerito il tempo o se ce l'aveva nel dna, per cui ha dovuto solo recuperarlo da un sottoscala. Crescendo scendiamo a patti con il linguaggio che troviamo, non ci chiediamo se sarebbe meglio correggerlo, se a imporne uno nostro tutto nuovo a quelli che ci mettono al mondo ci capiremmo meglio. La lingua dei figli invece che dei padri: sarebbe forte.
Faccio di questi ragionamenti scoscesi alle due del mattino, nell'ampolla d'insonnia dalle pareti di vetro infrangibile che talora mi contiene, implorando agli spiriti della notte - ce ne sono alcuni nella mia camera alle prime armi, vergognosi di mostrarsi di giorno - un'elemosina di sonno. A quell'ora non sono sveglio veramente e non dormo. È un terzo stato, metà e metà, come la borghesia ai tempi dell'assolutismo, e mi fa smanioso di dormire e per questa ansia che mi mantiene desto e nervoso incapace di farlo. Ne escogito, di ragionamenti, che neanche con la fantasia più spinta, di giorno, potrei arrivarci. Tre, quattro volte al mese, senza avvenimenti particolari e colpevoli motivi che giustifichino il misfatto - un caffé di pomeriggio, un film di esorcismi serale - mi sveglio in piena notte e sto lì a sibilare raffinate parolacce e a fissare le ombre sulle pareti. Si muovono, giuro, infilandosi tra le fessure della serranda come la sfoglia dei ravioli sotto la macchinetta della pasta, vengono da fuori, dal buio, fantasmi di natali passati spaventati dai lampioni, e chiedono asilo. Li lascio dormire con me, mi ci copro anzi come fossero coltri di lana: mi avvolgono e tengono caldo. Appena sono tutti sistemati e comodi mi permettono, finalmente, di riaddormentarmi.




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