Ai semafori si incolonnano macchine nervose, guidate da persone instabili, che ogni mattina accettano l'eventualità di uccidere o essere uccise per un sorpasso, una freccia non messa. Lavorando a singhiozzo, due minuti prima del verde e poi restando fermi finché non torna il rosso, inservienti del circo fanno distribuzione - tra i finestrini - di biglietti per lo spettacolo pomeridiano, e concorrenza ai lavatori di parabrezza. Statisticamente si litiga nel traffico tutti i giorni, talora in modo meno veemente, e conta se abbiamo affondato il colpo con soddisfazione o siamo andati in bianco, se la Champions è stata un allegria o ci hanno sbattuti fuori. Se ci va l'acqua per l'orto perdoniamo tutti, facciamo passare la signora imbecille che attraversa due metri distante dalle strisce pedonali, e le sorridiamo, appena compatendola per il cane in braccio. Ci ritroviamo alla sera in quelle spaventose adunate che chiamano apericene o ai gran galà di maleficenza, dove la moglie del primario che non rilascia fatture si sbatte per la raccolta fondi a favore dei morti di fame. Il sospetto che tutto quel che definiamo etica sia risibile, ci avverte, di tanto in tanto, dello scarto tra intenzioni e realtà, ma lo archiviamo in una buca dell'anima e lo teniamo a pane e acqua. Così impara. Per fortuna ogni tanto rigurgita, e ne sentiamo il sapore in bocca, come quando esageriamo con le arachidi. Il cinema, per dire, è una di quelle arti che può servire a tenere alta l'allerta sui disastri del mondo. Ho visto di recente - quindi colpevolmente in ritardo: la pellicola è del 2014 - un film straordinario. Straordinario nel senso più netto del termine, perché non è così usuale che il cinema ci indichi in modo tanto pulito gli equivoci alla base delle nostre vite. Il film si chiama I nostri ragazzi, la regia è di Ivano De Matteo, gli interpreti - bravissimi e noti - li trovate nella locandina qui sopra. Il teorema è che non siamo (quasi) mai ciò che vogliamo apparire. E che i migliori di noi possono rivelarsi i peggiori. E viceversa, per fortuna. Posso aggiungere che rare volte, ultimamente, un film mi ha così scosso e stranito. Perché ci ho ritrovato tanti comportamenti veri, verificabili negli amici, nei conoscenti, in noi stessi, e non costruiti dagli sceneggiatori. Ci ho ritrovato l'ostinazione degli adulti a non voler vedere lo scempio in cui facciamo abitare - come fosse una casa - i nostri figli, a minimizzare, a sorvolare. Cinema morale e non moralista, naturalmente. Nella migliore tradizione del grande cinema italiano.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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