Scrivo di quell'inezia che ho capito e di quell'universo che non afferro, scrivo per tenere un fiammifero acceso in una immane caverna: ne ho intuito l'ingresso, non ne vedo la fine. Scrivo d'amore conoscendolo alla lontana, cugino di terzo grado, ho raccontato di gente innamorata ed è stato come improvvisare all'esame di Glottologia. Mi capitò sul serio: mi fecero una domanda assurda e me la cavai con la parlantina, senza avere idea di cosa dicessi, senza ascoltarmi per non scoppiare a ridere. Forse per questo - perché ho più tempo per intuire qualche verità - ho un debole per le storie potenzialmente infinite, come The walking dead, il serial ma anche il fumetto, racconto imperfetto che ti incolla ai suoi eccessi fino a farti scordare che ti sta romanzando i tuoi, e allora dici Non può succedere. Invece è già successo, proprio a te. Una metafora gli zombi, mica ci vuole una testa d'uovo a capirlo. Come il dio tatuatore, come Mirka, se mi passate la presunzione. Il guaio è che a forza di metafore non siamo più capaci di raccontare la realtà nuda, così com'è. Ma com'è, effettivamente? Io mica lo so, brancolo nel buio della caverna - pure se brancolare è un verbo che mi piace, sa di parto letterario, di fusione tra l'uomo e il gesto che la parola consacra. Non ho capito gran che della mia vita e ne ho più di metà alle spalle, meschino che sono; non ne ho compreso come avrei voluto i meccanismi, l'altalena di causa/effetto. E sono ancora preda di sentimenti inconfessabili, infantili: zombi voraci. Mi divorano lasciandomi vivo, attutendo la bellezza intorno, come un pianoforte con la sordina. Comunque un racconto etico, TWD, perché parla di non arrendersi. La violenza esasperata, i corpi divorati, raccontano la battaglia. Siamo nati per combattere, dice. Contro noi stessi, per prima cosa, contro le schizofrenie che ci abitano. Il racconto è potenzialmente - genialmente - infinito perché non c'è vittoria, mai. Si vive in tempo di guerra, sempre. Può darsi arrivi un'epoca nella mia vita - tra un po', se tra un po' vorrà dire ancora esistere - in cui questo unico senso - combattere - non mi apparterrà più. Per ora va bene così, perché intravedo talora, come lampi di caldo, piccole giornate di pace. Anche i morti viventi hanno pietà, a volte. O hanno fatto indigestione della mia carne e stanno là, sazi e addormentati.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post