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Solitudini e solitudini

E nel discorso siamo usciti a parlar di vanità, l'altro giorno, al laboratorio di scrittura creativa. Quel misurino che ce ne vuole per far sortire di casa ciò che racconti, scommettendo che gli altri lo trovino attraente. Senza esagerare però, sennò diventa presunzione e se noi ci sentiamo presuntuosi metti che rinascesse Calvino: cosa dovrebbe sentirsi? Ma è stata una settimana impegnativa, densa come poche delle ultime due o trecento che ho abitato. E vanità o no, non mi sono risparmiato. Per cui ieri time out: mare. E a leggere Ciak e i quarantanni dello Squalo - in una caletta poco frequentata, dove hanno di nuovo trovato agio e benessere assieme i nostri cuori compagni - come lo squalo medesimo la voglia di scrivere ti morde, e cominci a innestare fantasie in una storia reale con lo stesso schiribizzo di un giardiniere in vena.
Eravamo stati al ristorante, il due giugno. Un ristorante il giorno di festa è pacchiano: comunioni, battitidimani, orchestrina romagnola, separè a dividere gozzoviglianti in gruppo e coppie sobrie che si guardano negli occhi tra il frastuono. E poi però ci sono anche i solitari, i dimenticati. Donne, o più frequentemente uomini, che mangiano a un tavolo lontano dal gorgo leggendo il giornale. Hanno cinquantanni e passa, non sono in una pausa dal lavoro a meno che non lavorino di domenica, non mandano messaggi al cellulare perché non c'è nessuno in nessuna parte del mondo a riceverli. Fanno un senso di decadenza, di mesta riunione casalinga dopo un funerale. Perché si ostinano ad uscire di casa, mettersi la cravatta o il vestito corto e andare a farsi del male? Io quando stavo solo svicolavo. Non ricordo di essere mai andato al ristorante nei giorni in cui era come fossi l'unico essere umano sulla terra. Per questo mi attrae, quella gente. L'ostinazione al masochismo è affascinante, in fondo ce l'ho avuta pure io, sotto altre forme. E potrei ricamarci una storia, un domani.
Ma torniamo al mare. Faccio il bagno e mi sfiora una razza, a due metri dalla riva. Mi prende paura e esco. Dice che lanciano scosse elettriche. Mi rimetto a leggere. Arriva un bellissimo ragazzo nero - sono inguaribilmente etero dalla nascita, senza tentazioni di modernità - ma la bellezza colpisce, qualunque sesso vesta. Mi fa Festeggia con me, oggi sono diventato padre e mi regala un elefante e una tartaruga di legno. Gli faccio i miei auguri, più sincero che posso, e gli lascio tutti i soldi che mi ritrovo nelle tasche del costume: sette euro e trentacinque. Erano per caffé e cremino ma 'sticavoli, pazienza. Gli chiedo se sua moglie è qui con lui. Capisce senza bisogno che ripeta; No in Senegal, mi risponde triste. Vai giù prima che puoi. Poi magari torna. Ma tuo figlio lo devi vedere - mi permetto di dirgli. Tu hai figli? Una, rispondo. E mi sorride con quella dentatura immacolata. Poi se ne va, continua il giro tra i bagnanti spruzzati a caso sulla spiaggia, come gocce dall'accappatoio di dio. E a me è venuta voglia di scriverne, a guardarlo diventar piccolo sulla sabbia. E se dovessi dire quale solitudine tra quella dell'uomo al ristorante e quella dell'Apollo nero è più cattiva sarebbe cosa facile, ma è meglio stavolta lasciare che ogni amico che mi legge scelga da sé, sulla scia delle sue stagioni passate. Per me anche oggi è tempo di mettere punto, salire in macchina e partire con Mirka, che ha quindiciannipersempre e tra le sue doti non c'è la pazienza, e già suona il clacson, di sotto, e mi alimenta di fretta perché racconti in pubblico ancora un'altra volta la sua avventura
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