E così, per un colpo di libertà, viaggiammo fino a non poterne più. Fu la mia ostinazione a innamorarmi di tutto quel che è pericoloso a farmi salire sul traghetto per le isole greche; nello specifico ciò che mi innamorava laggiù - che è un tempo e non un posto: il 1986, l'anno che me ne uscii dal Classico - era una dichiarazione d'indipendenza. Indipendenza dalla mia ritrosia a partire - perché ogni partenza porta appresso l'ansia di abitudini sospese - dall'incapacità di spiegare a mio padre chi ero per il solo tramite della vicinanza obbediente, da una ragazza arrivata troppo presto a organizzarmi la vita. Partimmo in quattro, due maschi e due femmine, una coppia e una no. Lo sembrammo però anche noi due - che invece eravamo slegati - e negli alberghi ci piaceva darlo a intendere, e dormimmo in fondo tutti assieme più che talvolta. C'era un modo di fare in quegli anni Ottanta che - solidificato in memoria - avrebbe poi dato adito a nostalgie in varia forma, acute e blande, ma sempre carezzevoli. O forse non era un modo di fare, era solo che avevamo poca età e adesso che ne ho un po' di più il passato punge. Il mare, le canzoni, le oscenità, erano quelle che racconta Lorenzo nella canzone linkata sotto e non mi dilungo, tanto tutti quelli che ne hanno quaranta e più si ricordano, teneramente. Quel che mi preme raccontare invece è che prima di partire feci una cosa che avevo sostanzialmente dimenticato fino a sette giorni fa: scrissi a Paula Cooper, una ragazza americana che era stata arrestata per l'omicidio di un'insegnante, durante un tentativo di rapina. Stava nel braccio della morte, avrebbe camminato il miglio verde, ma aveva solo quindici anni e gli appelli si sommarono alle suppliche, le scrissero da tutto il mondo lettere vere, di carta, e alla fine cambiarono la sedia elettrica in sessant'anni di carcere. Poi me ne sono dimenticato, come per tutte le cose che fai non per sentimento ma per dovere o per dirlo agli altri, e ho abitato la mia vita accidentata e aspra senza mai più metterle mente, o forse una volta, tanti anni dopo, quando in un pomeriggio orrendo di pioggia e attesa mi balenò in testa chissà perché mai il suo destino. Come per i pensieri di cui non t'importa lo spensi in fretta: intanto chi aspettavo era arrivata e l'ansia per la strada ghiaccia era morta.
Fino a che il 26 maggio di adesso, di questo tempo che ha una sua lucida intima poesia e per il quale provo la gratitudine del sopravvissuto, ho sentito dire dalla tv che Paula è morta, si è uccisa, la storia è finita così. Era già uscita di galera: le avevan dato un giorno di meno di reclusione per ogni giorno di buona condotta. Faceva la cuoca, si era diplomata, ma senza vacanze greche, lei no. Mi sono ricordato che le scrissi in italiano con una Bic blu, sul tavolo di vetro della tabaccheria, mentre entrava e usciva gente e io dovevo interrompermi. Mi ricordo la penna e non quel che le scrissi. Banalità, probabilmente, solidarietà simulate, che magari nessuno le ha mai tradotto e nemmeno recapitato. Che ne so. Epperò stavolta ho provato tristezza, affratellandola alla mia, ora sanata. La sua no, l'ha portata fino in fondo alla notte, nel punto più scuro. Ho trovato in rete la sua foto di bella ragazza - eccola qui sopra - che avrebbe desiderato un altro mondo, altre persone intorno, un'alternativa qualunque. E che ha vissuto mentre io morivo ed ha mollato mentre rinascevo. E che in fondo è morta due volte: il 26 maggio di adesso e trent'anni fa, quando io e tutto il mondo - dopo esserci mascherati di compassione - ci scordammo implacabilmente di lei.
Jovanotti canta "L'estate addosso":
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