Stavolta ti scrivo con la maiuscola, perché tu non possa pensare che non stia parlando di te ma a quell'altro dio che sta nel mio romanzo. No, sei proprio tu, Dio: D di Domodossola, architetto d'universo. In realtà pensavo di scrivere un'altra cosa, più intima, chissà, ma è che tornando a casa in macchina ti ho visto, eri tu, e mi sono innamorato di questa idea di parlarti. Stendevi il crepuscolo come un lenzuolo, lo spandevi al di là del parabrezza coi suoi toni di grigio e celeste, alle spalle dei palazzi: l'ora ideale per innamorarsi, tra l'altro. E per telefonarti come ha fatto Mirka: con un numero a caso
Mi immagino nei tuoi panni, in quella tunica, in quelle braghe. Assorto? Distratto? Incurante del tempo che passa? Pure te davanti a una lavatrice a gettone a Coney Island, dove ho piazzato il tuo alter ego? Non lo so. So cosa farei al tuo posto se fossi in te. Provo a spiegartelo. Se fossi in te, Dio, cambierei di un niente il mio comportamento, di un impercettibile moto, come sistemarsi a sedere più composti a un pranzo di gala, dove tutti sono impettiti. Nessuno avvertirebbe quell'insignificante spostamento, talmente esile da sembrare scorreggia di neonato. Se fossi in te, Dio, sarei orgoglioso degli incaponiti, di chi mi tiene testa, dei non-rassegnati, dei non-vinti. Che passione avrei per gli incontentati, gli indipendenti, i liberi pensatori: tutti cercatori di felicità in terra. Sarei ammirato da chi mi indaga senza verità suggerite da un altare e nell'indagare inciampa, e torna indietro, mi maledice e invoca, e mi implora di farlo morire per la troppo atroce bellezza di vivere. Quanto amerei gli uomini così. E sarei fiero dell'imperfezione, di tutte le volte che gli uomini si dicono Ti amo e non è vero ma credono lo sia, perché avrei un debole per i sognatori; commosso di tutte le volte che non lo dicono perché non ne hanno la forza ma l'amore li possiede in ogni fibra, e li consuma. Sarei più disposto a sporcarmi le mani: non sempre, solo quando è troppa la compassione per non farlo. Devierei in un campo il Suv impazzito prima che investa il ragazzino in bicicletta; attraccherei in porto la nave di disperati prima che coli a picco; farei ammalare di cancro - in percentuale - più i malviventi che le brave persone e darei bromuro - tanto - e meno banche ai preti. E poi spegnerei le parole che fanno male prima che possano uscire di bocca, tutte le parole usate e non credute, espulse per rabbia e rimpiante per tutta la vita; consiglierei più carezze, più sorrisi, specie tra estranei. Glieli suggerirei nel sonno, cosicché al mattino possano tutti svegliarsi con una luce nuova negli occhi. E dopo tutti questi minimi aggiustamenti - tanto piccoli che nessuno si accorgerebbe che sono cambiato - mi regalerei una vacanza di un miliardo di secoli. In fondo gli uomini la sfangherebbero alla grande anche senza di me, consolandosi col minor dolore che - io lontano - patirebbero. Un dolore intero invece gli tocca, così senza spiegazione, senza metodo e inconsolabile.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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